LA BAMBINA SILENZIOSA (Peter Høeg).

28 settembre 2023

Ho tirato oltre la mezzanotte per finirlo. Non vedevo l’ora di arrivare al punto, scoprire le ultime carte e ricostruire tutta la storia alla luce di chiarimenti che sentivo essermi dovuti. Così ho affrontato ansiosa l’ultima pagina, dopo una feroce battaglia con il sonno, che voleva avere la meglio sui miei occhi per chiuderli definitivamente alla fine di una lunga e pesante giornata. Giunta all’ultimo rigo, all’ultimo punto, ho scoperto che… che non ci ho capito niente.

Del resto me la sono cercata.

Peter Høeg è notissimo per il suo primo best seller, “Il senso di Smilla per la neve”. Romanzo meraviglioso, il primo che mi ha fatto innamorare della schiera degli scrittori nordici, scandinavi e giù di lì. Høeg è danese per la precisione, ma poco cambia, l’ambientazione è decisamente fuori dagli schemi mediterranei, o americani, cui siamo abituati. Il Nord Europa sembra un luogo a sé. Io non ci sono mai stata ma, del resto, a che serve altrimenti la lettura?

Høeg è stato bravo, mi ha fregata una prima volta e mi ha imbrogliato anche la seconda. Infatti dopo Smilla e il suo senso per la neve avevo letto un altro romanzo, “I quasi adatti”, che mi ha fatto sentire una disadattata io stessa: molta fatica e comprensione scarsa.

Vabbè. Capita di sentirsi inadatti, appunto, a leggere una scrittura così particolare.

Poi, un bel po’ di anni fa, mi imbatto in questo titolo: “La bambina silenziosa”, e mi blocco. Leggo gli strilli che ne anticipano la trama e resto affascinata. Ok, dico, caro Peter, diamoci un’altra possibilità.

Ho acquistato il libro, che poi, per le varie vicende della vita (è uscito nel 2006, credo, io l’ho incontrato qualche anno dopo), è rimasto sulla mia libreria nei secoli dei secoli. Tuttavia, siccome ho fatto un patto con una certa Nera Signora che non deve venire a prendermi fino a che non finisco tutti i libri che giacciono in casa mia a prendere polvere, e poiché sono di parola, dopo un periodo di totale abbandono della lettura (per cause indipendenti dalla mia volontà), ho ripreso a leggere tutto ciò che è rimasto indietro. Certo, non è necessario che la Nera Signora sappia che continuo anche ad acquistare, così che i libri intonsi non finiranno mai: lasciamola lì a fregarsi le mani. E dunque, eccoci qua, con questa bambina silenziosa.

In realtà il protagonista è un quarantenne danese, un circense, un clown per la precisione, con la propensione a vivere pieno di guai, soprattutto tributari, ma con un dono unico: quello di un udito soprannaturale. Kasper non è solo clown, è anche musicista, appassionato soprattutto di Bach, ma lui va oltre il cosiddetto orecchio assoluto. Lui ascolta i rumori di fondo del mondo, spesso paragonandolo a opere sinfoniche e di musica classica. Sente il rumore di ciascuno di noi, delle nostre anime, indovina i nostri pensieri dal suono che fanno, indovina il luogo da cui lo chiama una voce al telefono dopo appena due secondi, percependo suoni riflessi, lontani che nessun umano può recepire. Kasper è un po’ un supereroe, nel senso che ha un super potere. Che poi di questo talento ne faccia buon uso, è tutto da vedere. La sua vita privata è travagliata, ha perso la madre, circense come lui, da bambino, non va d’accordo col padre, che con il circo non ha a che fare, e ha un rapporto complicato con le donne. Ha avuto un grande amore, che sembra finito, ma che si ripresenta per tutto il libro con un ruolo misterioso.

Kasper insegna musica ai bambini e per questo un giorno degli strani personaggi gli portano una bambina, Klara Maria, che non solo non emette rumori di sottofondo (per questo è silenziosa), ma ha il suo stesso dono. Tra i due si instaura un legame, la piccola gli fa sapere di essere in pericolo e lui per tutto il libro cerca di salvare lei e altri bambini uguali a lei, tra personaggi che lo ostacolano e tentano di ucciderlo, altri che lo incoraggiano in segreto, in una baraonda assai poco chiara. Sullo sfondo, una Copenhagen oscura, minacciosa, buia, una città di malaffare con torbidi segreti e sporchi interessi economici da parte di pochi.

Tutto chiaro, vero?

Ecco, ora che ne scrivo, mi pare in effetti di avere azzeccato il senso della storia. È che lo snodo di questa trama è molto più complicato di così. E lo stesso il finale. Il primo impulso che ho avuto, chiudendo il libro e fissando il buio, è stato di rileggere tutto daccapo. Ma era tardi, e ho desistito. Rileggerlo più avanti? Boh, dovrei trattare con la Nera Signora. Sono comunque convinta che a rileggerlo con calma potrei capire meglio. Forse.

Il modus scrivendi è destabilizzante, si passa dal passato al presente, forse anche al futuro e a situazioni oniriche senza linearità. I personaggi sono tanti e non sempre mi sono stati chiarissimi per intenzioni e sentimenti, nemmeno nei nomi. Si parla della capitale danese, dei suoi quartieri, dando per scontato di conoscerli, ma per chi non c’è stato è un bell’incasinamento, non sono descritti in modo classico. E poi riferimenti musicali che chi non conosce la musica classica non sa come collocare.

Conclusione: libro da consigliare? Ni. Ci vuole un po’ di impegno.

Punti a favore:

  1. sotto sotto c’è anche un thriller che può intrigare, e non è dei peggiori, tutt’altro.
  1. resta affascinante il dono del super udito, che diventa davvero un super potere il cui uso è descritto benissimo
  2. Kasper è dopo tutto un vecchio bambino con dei problemi irrisolti, per il quale si può provare tenerezza.

Punti a sfavore:

  1. la cripticità di cui è ammantata tutta la storia
  1. il protagonista che a volte ha delle uscite sentite nelle peggiori americanate, o a essere buoni, alla Bud Spencer e Terence Hill. Ma in fondo è un clown, lo è fin nel midollo. Ci sta.
  2. Certe assurdità, che devi superare con un’opera di fede, come i discorsi della bambina, per fare un esempio, ma non solo
  3. il finale. Di cui non dico niente.

Però è stato bello incasinarsi nella lettura, vedere se il cervello funziona anche sotto sforzo. E dirsi alla fine: ne voglio ancora.

ORO (FEDERICA PELLEGRINI).

24 luglio 2023

“Nuotare è una preghiera. Si sta in silenzio, il rumore del mondo lontano, concentrati solo sul gesto da eseguire nel miglior modo possibile. Lasciando fuori dall’acqua i pasticci, i dolori, le imperfezioni della vita.” (da “Oro” di Federica Pellegrini)

Per tanto tempo mi sono rifiutata di leggere autobiografie di personaggi contemporanei. Il fatto che non fossero scritte da loro, ma da ghost writer, mi pareva ne sminuisse il valore letterario. È un convincimento che resta, però si può partire da un altro punto di vista: lasciamo stare lo stile, il modo in cui la storia è scritta, e concentriamoci sul contenuto. Ossia, sulla vita del personaggio famoso. Di certo chi scrive la biografia non può fare voli di fantasia, inventando chissà cosa, ma deve restare in un campo preciso di cose successe, di pensieri espressi, di sentimenti a volte nascosti e di fatti svoltisi il più delle volte sotto i riflettori.

Così mi sono accorta che tutto sommato, sarà perché sto invecchiando, sarà perché una volta non c’era la possibilità di oltrepassare i confini della privacy se uno non voleva, ogni tanto trovo delle storie private di personaggi pubblici che mi incuriosiscono e che finisco con il leggere volentieri.

Ho da poco finito ORO (Edizione La Nave di Teseo), di Federica Pellegrini, aiutata nella scrittura da Elena Stancanelli. Giustamente, direi: a ognuno il suo mestiere.

Il libro è raccontato in prima persona, come se fosse Federica a parlare, partendo da lontano, dal momento in cui nemmeno si ricorda di quando e come ha imparato a nuotare. Semplicemente, lei ha sempre nuotato. Idrodinamica come i pesci.

Faccio un passo indietro e spiego perché ho scelto questo libro. Perché a me la Pellegrini piace da sempre. La seguo fin quasi dagli esordi sportivi, quelli vittoriosi, a partire dai 16 anni circa con la prima medaglia olimpica. E la seguo perché a me piace il nuoto e quasi tutto quello che riguarda l’acqua. Mi piace seguire le gare in TV, quando posso, conosco il nome dei campioni, le loro fasi alterne così umane, che mi fanno sentire meno imbranata. Perché la sottoscritta ha imparato a nuotare da grande, dopo i 50 anni; prima, ma l’ho capito appunto tanto dopo, stavo solo a galla, con la testa ben oltre la superficie. E, diciamolo, sto ancora imparando.

Quando il fenomeno della Pellegrini è esploso, l’attenzione di mezzo mondo si è focalizzata su questa ragazza. Sono stati raccontati in diretta i suoi incredibili exploit sportivi, le crisi di rabbia o di panico, i suoi amori, le sue uscite troppo poco diplomatiche. Una vita sotto i riflettori, sotto pressione continua, da quando era poco più di un’adolescente e già nuotava affamata come uno squalo. Ma quello che passava veramente nella sua mente, il prezzo da pagare per ogni risultato memorabile, per ogni record abbattuto a spallate con la prepotenza di chi sa di valere, è spesso passato in secondo piano. Facevano più rumore i suoi record e certi apparenti colpi di testa. Così ora che si è ritirata dalle gare, l’ultima a 33 anni nel 2021, riportando l’ennesima e ultima vittoria nei 200 stile libero, la sua gara regina, ora che anche la vita privata si è stabilizzata, Federica si racconta.

Racconta senza sconti, con onestà, di tutte le volte che è caduta e si è rialzata, e perché si è tatuata l’araba fenice, che rinasce dalle proprie ceneri. Racconta della grinta, della determinazione, della volontà di riuscire al meglio in ciò che in lei sembrava già naturale, come per noi respirare. Del sacrificio, degli allenatori cambiati, scelti da lei senza farsi mettere i piedi in testa da nessuno, del dolore quando il suo preferito, quello che l’ha forgiata meglio di tutti, è morto improvvisamente lasciandola come un’orfana allo sbando.

Una vita che ho letto d’un fiato, grazie anche alla scrittura “parlata” della Stancanelli, che fa entrare nel mondo dei campioni che vediamo in TV, giovani, belli e forti, ma di cui ignoriamo molte cose, quasi tutto. Ignoriamo per esempio che forse, quando vengono fermati dai giornalisti subito dopo una gara, costretti con il fiatone e con il costume bagnato ancora addosso a commentare quanto appena vissuto in vasca, nel bene e nel male, forse non sono del tutto a loro agio, ma fanno buon viso a cattivo gioco, magari dicendo cose che poi nemmeno ricordano… Ignoriamo che quando ci si gioca una finale mondiale o una medaglia olimpica sul filo dei centesimi di secondo, anche una bollicina d’aria che si forma nel costume può essere determinante, per far vincere o perdere. Tanto che Federica il costume se lo incollava alla pelle sul petto, dov’era più facile che potesse accadere. Ignoriamo che a volte un record può essere negato anche a causa del malessere dato da un disturbo mestruale. Ignoriamo forse che una campionessa come lei per molti anni non ha quasi altra vita che dentro una piscina, che anche gli amori nascono e muoiono in acqua (o a bordo vasca). Tutto il mondo relegato a un fondo di piastrelle azzurre, da percorre milioni di volte senza mai alzare lo sguardo, voltando la testa di lato per meno di un attimo, a respirare quel filo d’aria che deve bastare, e macinando chilometri, (anche 18 al giorno, in alcuni periodi! Io che a malapena reggo 20 minuti di nuotata per poco più di 600 metri non riesco a capacitarmene…). E che dire dell’allenamento svolto con i maschi, con gli stessi ritmi, quando si sa che per costituzione fisica maschi e femmine non possono mai avere gli stessi risultati?

Federica racconta tutto. Ho rivissuto da dentro episodi seguiti da fuori, alla TV, capendoli meglio. Racconta anche come migliorare la tecnica del nuoto a stile. E io ho anche cercato di mettere in pratica, ma sì, buongiorno, manco li capisco i suoi consigli, figuriamoci. Però mi illudo. Mi sono sempre illusa che un giorno avrei fatto anche io il botto, nel mio piccolissimo ovviamente, mica alle olimpiadi. Invece ora, un po’ per l’esperienza ormai acquisita in quasi dieci anni che ci provo, un po’ per l’età non più verde e manco azzurra, piuttosto tendente al grigio, un po’ leggendo in cosa consista la vita di atleta, ho capito che un’atleta non lo sarò mai, che devo accontentarmi di progressi e obiettivi minimi. Almeno dal punto di vista sportivo, perché per il resto nessuno potrà togliermi la passione e l’amore per l’acqua, come una vera campionessa.

Proprio come Federica Pellegrini, il mio faro per tanti anni, che ho adorato, oltre che per il sogno che ha regalato al mondo intero, anche per il lato umano che intuivo al di là di un costume, una cuffia e un paio di occhialini: fragile e decisa, sincera e scorbutica, forte e tenera, lacrime e puntiglio.

Siamo così diverse, e non solo per il quarto di secolo di età che ci divide: lei determinata, io indecisa, lei concentrata su un unico obiettivo, io distratta da mille interessi, lei una campionessa, io una mediocrità, lei bellissima, io… no, lei digiuna prima della gara come un predatore, io che se non mangio svengo e magari mi affogo.

Eppure anche io, come lei, mi ritrovo nella frase riportata all’inizio: nuotare è una preghiera, è cercare la perfezione del gesto lasciando fuori le imperfezioni della vita e i cattivi pensieri.

E poi siamo così dannatamente acquatiche entrambe.

Si fa per dire.

Diciamo a grandi linee.

Molto grandi linee.

Ok, lei è la DIVINA, io una ranocchia. Che cambia?

MARCO MENGONI, IL CONCERTO. BIBIONE 17 GIUGNO 202

19 giugno 2023

Ritorno a parlare di Marco Mengoni. Non perché non abbia altri argomenti da trattare. Ma perché lui in questo momento è un caso. E in questo momento sono rapita da questo caso affascinante, che emoziona, che è bravo e riempie il cuore e gli occhi di bellezza.

Sono reduce dal concerto tenuto a Bibione, la data zero del tour estivo Marco negli stadi, iniziato lo scorso anno, che proseguirà fino all’exploit del 15 luglio al circo massimo di Roma. Per poi proseguire con molte date europee nell’autunno.

Marco è Marco. Per tutti i suoi fan è solo Marco. Un ragazzo come noi, viene da dire, anche se noi abbiamo superato gli anta da un pezzo. Impossibile restare indifferenti.

Lo stadio di Bibione è pieno, oltre venticinquemila persone tutte lì per lui, riversate sul prato, o sulle tribune che guardano il palco. Poi esiste, appena sotto la tribuna, una piccola pedana rialzata riservata alle persone con disabilità e i loro accompagnatori. Io mi trovo lì, con due ragazze con disabilità e un’altra accompagnatrice. Se doveva essere una posizione privilegiata mi tocca dissentire. Il palco, pur gigantesco, è lontanissimo, ci aspettiamo di vedere Marco ridotto alle dimensioni di formica e dovremo accontentarci dei maxi schermi. Che sono proprio maxi. Sulla questione trattamento riservato alla disabilità ritornerò più avanti. Per ora parliamo del concerto.

Aspettiamo Marco sul finire di una giornata splendida, caldissima, con il sole ormai calante che scalda ancora le spalle e il collo e un cielo azzurrissimo solcato da un drone curiosone. Siamo arrivate tre ore prima e il prato già era quasi pieno. Abbiamo saputo che qualcuno è arrivato già ieri e si è accampato lì nei dintorni. Osservo il popolo di Marco, i guerrieri, o mengolovers. Popolo variegato. Giovani di entrambi i sessi, ragazze con la pancia scoperta e i calzoncini cortissimi, beate loro, quarantenni con i tacchi e il vestito elegante, uomini accasati con tanto di consorte, sessantenni scatenate in reggiseno che ballano al ritmo della musica di sottofondo. E bambini. Asciugamani o coperte per terra, aspettando; si mangia e si gioca con grande civiltà. Non vedo ubriachi, non vedo persone moleste o scherzi pesanti. C’è aria di festa in famiglia.

Con un leggero ritardo, a stadio ormai stracolmo di brulicanti, trepidanti formiche, arriva Marco, dall’entrata opposta al palco, di modo che per raggiungerlo deve passare tra la folla. Una visione vestita di bianco, che già sta cantando Cambia un uomo. Visione purtroppo oscurata, nella mia postazione, dall’immensità di braccia levate, telefonini accesi, tutti ammassati al passaggio dell’artista. Sono riuscita a intravedere per un attimo solo la testa, giusto perché lui è alto di suo, e il viso sorridente di Marco, ma è durato un nanosecondo. Naturalmente manco a dirlo, le persone disabili, che non potevano muoversi, non hanno visto nemmeno quella mezza testa. Tanto per dire.

La visione bianca attraversa la folla scortato dagli uomini della sicurezza, che lo tengono al riparo dalle centinaia di mani che vorrebbero ghermirlo, e che comunque lo stringono in un adorante abbraccio virtuale. Diciamo che è già tanto non svenire al suo passaggio. Noi lo vediamo di schiena mentre raggiunge il palco e già sospiriamo. Gli schermi ci rimandano anche i primi piani, e anche se la sua figura è quasi microscopica, lo vediamo da vicino così. È come guardare un quadro, un’opera d’arte. Perché, inutile essere ipocriti, Marco è semplicemente bello, di una bellezza esagerata e disarmante, che fa sospirare a tutte le età, qualunque sia il genere di appartenenza.

Ma subito comincia lo spettacolo!

Le prime canzoni sono tutte da scatenarsi, da ballare e saltare, le più dinamiche del repertorio, che gli permettono di liberare quella sua voce pazzesca che ti lascia senza fiato e ti porta via. Una voce che ha dell’assurdo, spettacolare, impossibile. Si arrampica su note che arrivano alle stelle, poi scende e si fa morbida, poi ritorna su, poi ti avvolge, ti accarezza, fa mille evoluzioni. A un certo punto ho davvero una visione: la voce che sfugge al suo proprietario, così pulsante e dotata di vita propria che sembra seguire un andamento indipendente. Pare che Marco la voglia lasciare libera, tipo cavallo pazzo, e nello stesso tempo riesca a domarla a suo piacimento. Non so come spiegarlo diversamente. Bisognerebbe ascoltarla. Credo che nel panorama pop del momento non ci sia nessuno che possa reggere un confronto. Lui è il più bravo e basta.

Laser, fumi, immagini, tutto si accorda alla sua voce, mentre lui si muove a tempo e balla con grazia. Vabbè, cosa gli manca a ‘sto ragazzo? Direi proprio niente.

Passano i pezzi più famosi, che tutti cantano, qualche brano del nuovo disco materia Prisma. Qualche intermezzo, per permettere a Marco di cambiarsi, cosa che farà piuttosto spesso. In uno di questi un filmato a sorpresa con la simpatica Drusilla Foer che presenta i componenti della band, lasciando spazio ad ognuno per un piccolo assolo. L’ho trovato bello. Di solito gli artisti presentano i musicisti alla fine e basta, qui invece hanno avuto modo di farsi notare. Notevoli le voci delle coriste.

Vari cambi d’abito, dicevo. Una mise più seducente dell’altra: abiti cuciti sulla pelle, trasparenze appena ombrate e lustrini luccicanti, reti sottili o visioni di torace su un fisico pazzesco, scolpito, esibito con naturalezza, senza alcuna volgarità né compiacimento. Foto artistiche di lui a torace nudo vengono anche proiettate ad un certo punto del concerto, le stesse immagini che si vedono nei video.

Niente da dire.

Meglio tacere.

Magari fantasticare.

Per poi ricordarsi di richiudere la bocca ogni tanto, di fronte alla meraviglia. E tornare alla musica, quella Pazza musica, e a quella voce unica.

Arriva il momento tanto atteso, quello di Due vite, la canzone vincitrice a Sanremo. Alle prime inconfondibili note si alza il delirio collettivo. Venticinquemila telefonini si elevano al cielo della notte con la torcia accesa, nelle prime file si alzano sagome di mezzelune pronte a esplodere. E quando arriva il ritornello qualcosa esplode davvero: venticinquemila voci, più o meno all’unisono, cantano dell’ultima canzone dopo la quale la luna esploderà, mentre tu non dormi dormi dormi dormi mai, e che giri fanno due vite… Venticinquemila voci, una voce sola, immensa. Marco si è interrotto quasi subito, non riesce a cantare, si emoziona, si copre gli occhi. Quando finalmente attacca la seconda strofa, la telecamera mostra nel formato gigante del maxi schermo le sue lacrime, che non si cura di asciugare. Perché questo ragazzo, quest’uomo bellissimo, è così: si emoziona e non si nasconde, piange e le sue lacrime di gioia ce le regala. Lo si ama (anche) per questo. La voce però non ha tremato, ha portato a termine la canzone e sull’acuto sono partite stelle filanti e credo coriandoli. Un momento travolgente, intenso.

Come la penultima canzone, a cui Marco ha detto di tenere molto: Proibito. Non serve spiegare perché. Basta ribadire il suo pensiero: nessun amore, se è amore, può essere proibito, ma ha diritto di esistere.

Come sempre ci sono dei messaggi nei concerti di Marco. Oltre al discorso del prisma, che scompone una luce bianca in mille luci colorate, io ho trovato, nella logica della scaletta, un filo conduttore: quello della libertà. Libertà di essere come sei, di amare chi vuoi, senza vergognarti, senza nasconderti, libertà di avere il coraggio rimanere esseri umani, di fidarsi, di liberarsi delle sovrastrutture di piombo, di volere, semplicemente, le cose più pazze. Volersi bene e amare, anche soffrire per amore, proteggere l’altro, sempre, a qualunque costo. Ma liberi, liberi, liberi. Liberi come Marco, che nel tempo ha trovato finalmente la maturità per esserlo e per porsi come esempio.

Il concerto finisce, troppo presto, per la verità, dopo due ore che hanno lasciato Marco sgolato ed esausto (“Se trovate le mie corde vocali da qualche parte, mandatemele per posta!“) con Buona vita, come augurio per tutti. Venticinquemila persone se ne vanno nella notte, in buon ordine, con ancora negli occhi tutta quella bellezza.

E veniamo alle note dolenti. Poche, ma doveroso segnalarle. Tutti si aspettavano qualche canzone in più da Prisma, che sono bellissime: un po’ sono mancate. Inevitabile, immagino, che nella scelta dei brani non si può accontentare tutti. Speriamo nel prossimo concerto. E speriamo di riuscire ad andarci.

Il peggio, a mio parere, riguarda, come anticipato, la gestione delle persone con disabilità. Certo, abbiamo trovato molta gentilezza, la corsia preferenziale per l’accesso era libera. Ma il parcheggio per disabili era lontano dall’ingresso riservato. Non tutti i disabili sono in carrozzina, qualcuno ha dovuto fare molta strada a piedi, con fatica.

La pedana rialzata, come detto, era lontana dal palco. Sarebbe bastato posizionarla un po’ più verso il centro del prato, anche di lato, mica si chiede chissà cosa. Inoltre, a pochi minuti dal concerto, queste persone con problemi anche importanti continuavano ad arrivare, e ci siamo sentiti dire dal personale che se continuava così gli accompagnatori di chi stava meglio dovevano andarsene da lì e lasciare il posto. La cosa è semplicemente assurda e irritante: si fa a gara a chi è più disabile? A chi più ha bisogno di un accompagnatore? A chi deve sloggiare dopo che sta lì da tre ore per lasciare il posto a chi arriva (a volte con un po’ di prepotenza) all’ultimo minuto? Ma scherziamo? Se i posti sono limitati, e si deve comprendere un accompagnatore per ogni disabile, devi sapere quanti posti hai disponibili PRIMA di vendere altri biglietti. Anche i posti normali hanno un limite, non puoi andare in overbooking. Questo balletto è stato sgradevole, anche se per fortuna poi non è stato necessario che qualcuno dovesse andarene. Però è stato ugualmente antipatico quando ci hanno fatto fretta dopo il concerto per lasciare la pedana. Un po’ di pazienza che diamine! Parliamo di gente in carrozzina, qualcuno anche con grave disabilità: come puoi pretendere che si sgomberi velocemente?

Ovviamente la gestione dei posti riservati non compete a Marco, che immagino se avesse saputo questa cosa sarebbe inorridito. Peccato, unica nota stonata in una notte che di note ne ha sentite di meravigliose arrivare fino alle stelle, lì dove una luna è esplosa d’amore.

Sono stata troppo sdolcinata dite?

Ascoltatelo, Marco Mengoni, poi sarete d’accordo con me.

MARCO MENGONI, LE SUE DUE VITE, IL MITO NEL SECONDO TEMPO DELLA MIA VITA.

14 Maggio 2023

Io non ho il suo numero di telefono. E neanche un indirizzo cui scrivergli. Ma se potessi comunicare con lui gli dire grazie.

Grazie, caro Marco Mengoni.

Grazie di esistere.

Marco è un ragazzo che non si vergogna di mostrare in pubblico la propria fragilità, la sua emozione, che si concede ampiamente ai fan adoranti pur mantenendo quel sacrosanto diritto alla propria privacy. È un cantante dotato di una voce che è uno strumento musicale in sé e che lui governa alla perfezione, ma anche se non fosse perfetto (a volte sembra dotato di vita propria), va bene uguale, perché poi chi se ne accorge delle imprecisioni quando il risultato è la vibrazione dell’anima.

Ho cominciato a seguire Mengoni una decina di anni fa, a partire dalla sua prima vittoria a Sanremo con la canzone dal titolo L’essenziale. C’era chi lo prendeva in giro per l’aspetto stralunato che lo caratterizzava nei giorni del Festival, chi smontava le parole della sua bellissima canzone, chi lo criticava bollandolo come la solita nullità uscita da un talent.

Eppure aveva vinto. Quell’aspetto stralunato a guardarlo bene si capiva che era solo emozione. Lui aveva appena 24 anni, una sensibilità esagerata, l’aria di chi si sentiva inadeguato in un mondo incomprensibile. Tuttavia aveva cantato, probabilmente contro se stesso, con quella voce che sa arpeggiare in un modo unico, e aveva conquistato il trofeo. Mi aveva incuriosito, mi aveva fatto tenerezza, come non mi capita spesso con i cantanti. I talent non li seguo, non mi ritrovo nel rap e nel trap che dilagano in un modo incomprensibile, quelli a cui ero e sono affezionata sono artisti di una certa età, che hanno fatto la storia della musica soprattutto italiana, ma anche del mondo. Ma in questo ragazzo avevo notato da subito qualcosa di inconsueto: la gentilezza, la timidezza, la sincerità.

Ho cominciato a comprare la sua musica. Mi ha accompagnata in un periodo incredibile del mio percorso umano, a volte ritrovandomi nelle sue parole. Parole che, per inciso, non sono da considerare letteratura, a volte si ripetono, eppure a modo loro sono poesia. Quando ti colpiscono, quando ci fai caso, quando ti ci ritrovi, le parole di una semplice canzone sono sempre poesia. La musica poi non era banale, non era simile a quello che avevo sempre cantato, ma nemmeno si poteva accostare al genere imperante delle nuove generazioni. La musica aveva una sua forte personalità. Orecchiabile ma non facilissima (perché, diciamolo, chi può mai arrivare alle tonalità di un Mengoni in stato di grazia?). E siccome non sono un’esperta, ho letto, mi sono informata, e ho scoperto che la naturale vocazione di questo artista sta nella contaminazione con tanti altri generi e nella ricerca, che poi frutta, appunto, un’impronta assolutamente originale.

Insomma, a me le definizioni tecniche non importano un fico secco, quello che conta è la sensazione che una canzone mi regala. E il benessere che mi investe con le canzoni di Marco non lo avvertivo da molto tempo, da quando, da ragazza, avevo altri miti.

Ecco, il mito.

Maro Mengoni è ormai ufficialmente il mio nuovo mito.

Pochi anni fa ho visto il primo concerto. Mi ha incantato. Oltre alla voce, incredibile dal vivo, tutto lo spettacolo è stato entusiasmante. Il coro, i filmati, le luci, il messaggio ecologista. I colori dell’anima, della musica. La passione, la delicatezza. La sensibilità gigantesca, che negli anni si è perfino accentuata. Dal concerto in poi mi sono definitivamente consacrata fan, anzi ultra fan. Nonostante la mia età non più verdissima, ho ripreso, come quando ero ragazza, ad ascoltare in loop le canzoni di colui che mi stava entrando sempre più nel cuore, a cercare pure di impararle a memoria Ahimè, la memoria è sempre più scarsa, ma lo considero un ottimo esercizio contro la demenza, e lo consiglio a tutti. In quanto alle tonalità, sono decisamente inarrivabili, almeno per me che sono stonata come la classica campana (che però va d’accordo con la carampana che sono), ma, di nuovo, e per sempre, chi se ne frega!!! E se non mi metto a collezionare foto, ritagli, articoli che parlano di lui e delle canzoni è solo per decenza, perché con alle spalle una vita piena non saprei dove metterli. E in ogni caso, grazie Spotify, che mi risparmi almeno di ricopiare i testi delle canzoni…

Anche quest’anno Marco ha vinto il festival di Sanremo, il secondo. La canzone regina stavolta si chiama Due vite, ed è già un tormento. Ho scritto bene: non un tormentone (volendo, anche), ma un tormento. Una splendida canzone.

La differenza con il festival di dieci anni fa salta subito agli occhi. E fa innamorare ancora di più. Il ragazzo timido ha lasciato il posto a un uomo più sicuro di sé, che non ha perso la sensibilità, ma che non ne fa più mistero. Un giovane uomo che ha fatto esperienza, che ha pianto al suo primo stadio colmo all’inverosimile, che ha affinato una voce di per sé già quasi miracolosa, che ha imparato a prendere le distanze dall’emotività, per giocarsela a suo favore. Ed è così che vince Sanremo, grazie a una canzone che mi fa letteralmente venire la pelle d’oca quando l’ascolto, anche adesso, anche a distanza di mesi, e che nell’interpretazione unica e irripetibile di Mengoni non può fare a meno di farmi scendere due lacrime di commozione. Mai avevo sentito la partecipazione così viscerale di un cantante mentre canta una sua canzone. E a memoria sono stati pochissimi nel passato i brani che mi hanno saputo commuovere, e in ogni caso non tanto come questa. Perché le altre volte mi colpiva magari il testo, ma in questa ciò che mi dilania è l’intensità dell’emozione dell’artista. Vittoria meritata a Sanremo, senza storia, senza se e senza ma.

E siamo all‘Eurovision Song Contest di ieri sera. La manifestazione canora europea in cui il vincitore di Sanremo è chiamato a rappresentare l’Italia è un vero circo, un luogo di ritrovo di musica, gioco, travestimento, pazzia. Un luogo in cui ognuno fa musica come gli pare, dove si vedono gli spettacoli più pirotecnici, i travestimenti più pazzi, dove si incontrano etnie, sonorità, tradizioni, folklore di tutti i Paesi d’Europa, in un clima di libertà, fratellanza, di pace e divertimento. Certo, c’è la gara, ci sono le votazioni e alla fine ci deve essere un vincitore, scelto dalle giurie degli altri Paesi, che non possono votare il proprio cantante, e dal pubblico con il televoto. Diciamo anche che tutto questo non vuol dire che sia rappresentata la musica migliore del nostro continente, il tutto è abbastanza, e simpaticamente, anche piuttosto kitsch, ma lo spettacolo è folle, multicolore, pazzesco, alla fine divertente e godibile. Da alcuni anni non me ne perdo uno!

E quest’anno, cioè ieri, Marco è stato il nostro rappresentante, ancora con Due vite. E ancora una volta mi ha stesa. Ancora più del solito. Non mi rialzo più.

In un circo assurdo di urlatori folli, di balletti, di maschere e trucchi esagerati, la sua esibizione è destinata a restare nella storia. La semplicità di una scenografia in bianco e nero, per niente rutilante, ma serena pur nel significato esplicito del contrasto fra le due vite di ciascuno, una alla luce del sole e quella ombrosa della notte. Quella voce pazzesca, ancora più appassionata del solito, così tanto da non reggere all’emozione proprio nell’ultima nota, sussurrata, smozzicata, quasi singhiozzata. Quella figura elegante ma non classica, di una bellezza imbarazzante, che proprio alla fine di quell’ultima nota crolla in ginocchio, preda della sua stessa commozione. Ecco, ancora una volta pure io mi sono sciolta in due lacrimucce: altro che due vite, ogni volta sono proprio due lacrimone che non riesco a trattenere.

Non c’è paragone col resto del circo, non c’è storia. Sembra impossibile non vincere, come fa un cuore a resistere? Eppure è così.

Mengoni non vince, arriva perfino quarto, che pure è un ottimo risultato, ma non quello che avrebbe meritato. Ha vinto invece una canzone di quelle che a me non dice nulla, come le altre due arrivate sul podio, tutte accompagnate da un grande spettacolo, ma dove sta l’emozione? Non esiste, pura merce commerciabile.

Per fortuna già prima dello spettacolo Due vite è stata premiata come migliore composizione musicale, un premio della critica, un premio serio, a dimostrazione che almeno la qualità non è una opzione. E niente Marcolino, va bene così. Va bene, benissimo, come la tua entrata nell’arena con la bandiera italiana da un lato e quella arcobaleno dall’altra, unico del circo a rappresentare la pace e i diritti delle minoranze maltrattate, un gesto che rende l’idea del rispetto dell’uomo per l’uomo e dell’amore per la libertà di essere ognuno come gli pare.

Grazie ai social ho potuto seguire passo passo tutto quello che ha fatto questo ragazzo nei giorni prima della finale. Perché lui condivide moltissimo con i suoi fan, e quando gli arrivi vicino è disponibile come pochi a farsi toccare, a salutare, a fare i selfie. Tutti lo adorano. Lo adoriamo.

Grazie ai social, dicevo, ho visto la sua gioia genuina di essere lì a Liverpool di conoscere tanti colleghi e ragazzi come lui e apprezzarli con pieno spirito ecumenico, lui che ama l’armonia nei popoli, le contaminazioni e prendere spunti. Ho visto il mini concerto prima della finale scatenare l’entusiasmo non solo degli italiani lì residenti per vari motivi, ma anche degli stranieri, che non capivano una mazza delle parole, ma erano entusiasti di una musica mai banale, di una voce quasi angelica ma potente, di una prestanza fisica notevole. Ho visto anche la serenità di Marco nell’ammettere che la classifica non gli importava poi tanto, che lui era lì per la musica, per farsi conoscere, per divertirsi.

Così è stato, caro Marco. Ti sei divertito tu, ci siamo divertiti noi, ci siamo emozionati tutti. Hai vinto ugualmente, ho visto con i miei occhi i messaggi di persone di altre nazioni che garantivano il voto per te.

Continuerò a seguirti ovviamente, ho già in programma il prossimo tuo concerto dal vivo. Figurati se me lo perdo!

Ecco, se avessi un modo di contattarti, caro Marco, ti direi grazie. Grazie per quello che sei, grazie per la tua musica e per la nuova carica che mi hai regalato, grazie per il tuo sorriso sereno. Grazie perché sei una bella persona, si sentiva il bisogno di uno come te.

Grazie per ieri sera, per il fair play, per l’assenza di invidia, per la generosità.

Grazie per il tuo esempio.

Non cambiare mai. Fammi sognare ancora, come la ragazza che ero tanto tempo fa.

https://www.raiplay.it/video/2023/05/Eurovision-Song-Contest-2023—Italia-Marco-Mengoni-canta-Due-vite—13052023-68f5d0f0-1573-409c-aa73-102648b197e3.html

ANIMALI CHE SALVANO L’ANIMA. L’ESPERIENZA NEL CARCERE DI GORGONA.

16 febbraio 2023

Se un libro nasce per fare emozionare, questo piccolo volume assolve in pieno il suo compito.

Incappo per caso nel titolo, leggendo distrattamente uno di quei materiali pubblicitari che arrivano per posta a sollecitare contributi per le cause umanitarie più disparate e disperate. Un plico della LAV (Lega Anti Vivisezione), che si batte da sempre per il benessere animale. Sono una sostenitrice occasionale di questa associazione, come di altre, e ciò comporta che arrivino a casa continui solleciti a rinnovare contributi economici per sostenere le varie attività benefiche. Una scocciatura, detto tra noi, ma solo per l’insistenza sfacciata, a volte quasi molesta, non per i fini.

Questa volta nel plico in questione si nomina il libro “Animali che salvano l’anima. L’esperienza nel carcere di Gorgona”, e mi incuriosisco. Finisco con l’acquistare il libro, che è stato pubblicato proprio con il contributo della LAV, e i cui proventi andranno a finanziare i numerosi progetti in cantiere.

Si tratta di una raccolta di pochi racconti, scritti in modo molto semplice, a volte elementare, da alcuni detenuti del carcere di Gorgona. Ma è un libro che apre vari scenari di riflessione.

Premessa doverosa. La Gorgona è un’isola dell’arcipelago toscano, di fronte a Livorno, che ospita un istituto penitenziario. Fino a qualche tempo fa il carcere era legato a un’attività di macellazione di animali allevati in loco. Erano gli stessi detenuti (oggi dovrebbero chiamarsi persone private della libertà) che in una discutibile attività di recupero sociale dovevano occuparsi del lavoro nel macello. Grazie a una intelligente e insistente azione della LAV, il macello è stato chiuso, molti animali trasferiti, tanti lasciati alle cure dei detenuti. La storia di questa trasformazione è nella prima parte del volumetto, dove si trovano tra le altre le testimonianze del direttore del carcere e della docente di scrittura creativa Prita Grassi, colei che ha avviato un progetto sicuramente di più elevato valore sociale della macellazione, e in qualche modo riabilitativo. Insieme hanno elaborato un laboratorio di scrittura per i detenuti che, ispirato dal contesto particolare della collocazione dell’istituto detentivo, ha per oggetto il loro rapporto personale con gli animali.

Con un’adesione dapprima timida, poi sempre più partecipata, nascono dei raccontini semplici, eppure commoventi, episodi di vita delle persone detenute vissuta con un animale, accompagnati perfino da bellissimi disegni.

Ecco, io sono riuscita a commuovermi.

In nessuno dei racconti si fa accenno alla situazione attuale, al massimo si accenna a qualche esperienza con piccoli animali in altri carceri. Non conosciamo le motivazioni per cui queste persone hanno dei debiti con la società. Si può a volte intuire una vita difficile in certi ambienti frequentati nella vita passata. Per esempio in un racconto si parla come se fosse una cosa normale di pitbull addestrati al combattimento. Che però non è l’argomento principale, al contrario, lo è l’adozione di uno di quei cuccioli e l’amore che l’autore del racconto prova nel prendersi cura di lui.

Il prendersi cura è un argomento ricorrente: ci si prende cura di un uccellino, un gattino, di un puledro, di un cane con la rogna. Perfino di cobra velenosi. Sono essenzialmente ricordi di infanzia, o di una gioventù che inizialmente era “normale”, e che in seguito per chissà quale evento, si è trasformata in una complicata condizione di adulti in difficoltà, confluita poi in una condanna penale.

Le domande che ci poniamo ovviamente si riassumono, pur non volendolo, in un unico quesito: persone così sensibili e delicate nel raccontare questo prendersi cura di qualcuno, come hanno potuto sbagliare nella vita in un modo così importante da ritrovarsi dietro le sbarre?

C’è qualcuno che nomina il luogo dove è nato, un difficile quartiere di Napoli. Chi invece accenna a uno stato d’angoscia al pensiero della propria condizione, che solo la presenza dell’animale attenua un poco. Ma nessuno spiega, o prova a spiegare, cosa gli è successo.

Alcuni dei racconti hanno una firma, altri sono anonimi. Rincorrendo una risposta ho fatto una ricerca su uno dei nomi riportati, pur consapevole di una possibile alta percentuale di errore per omonimia. Ho scoperto che questo nome è coinvolto in un processo di omicidio, conclusosi con una condanna in via definitiva nonostante un’appassionata proclamazione d’innocenza.

Fa un po’ impressione, vero? E chissà quali altre storie ci sono dietro quei nomi fittizi, quelle storie di ricordi gentili, quelle parole semplici. Non lo sapremo mai, e forse è giusto così. Non sono tanto i singoli eventi, per quanto potenzialmente e tragicamente affascinanti, di cui si deve parlare qui. I racconti non sono capolavori letterari, sono scritti in modo semplice, pur se opportunamente revisionati e corretti. Ma i contenuti sono di una delicatezza che non ti aspetti. Uno degli autori dice che chi non ama gli animali non può amare neanche i cristiani. Un altro che non vorrebbe mai essere uno squalo, perché pericoloso per gli umani, né un’aquila, che uccide altri animali; meglio formica, che fa comunità con le sue simili ed è utile all’ambiente perché ripulisce il marcio.

Se sospendiamo il giudizio sul reato commesso si fa avanti un’altra riflessione. C’è una persona che ha sbagliato e che sta pagando il suo debito, ma grazie agli animali, prendendosene cura o ripescando un rapporto felice nella propria memoria, riesce a ritrovare una parte buona di sé, quella che andrebbe coltivata. E non soffocata nella sepoltura carceraria.

Sappiamo che gli animali svolgono un ruolo importantissimo nella nostra vita, dalla semplice compagnia, alla ricerca di sopravvissuti nelle catastrofi naturali, alla pet therapy e chi più ne ha più ne metta. Adesso sappiamo che riescono a suscitare sentimenti buoni, di cura, anche in persone socialmente e penalmente condannate. La riabilitazione carceraria dell’isola di Gorgona accudendo animali, invece che macellarli, dovrebbe essere presa ad esempio in più realtà. Nessuno è veramente cattivo se è capace di prendersi cura di un essere innocente.

Prendiamone atto: un animale, in un contesto di sofferenza, è un’oasi benefica nel desolante deserto delle istituzioni, della cronica incapacità di creare regimi di recupero più umani e meno… bestiali.

CERCANDOMI SU GOOGLE

4 gennaio 2023

Chi non ha mai fatto una ricerca con il proprio nome su Google? La facciamo tutti, anche chi non ne ha motivo perché conduce una vita che non gli ha mai puntato addosso le luci della ribalta. Lo faccio anch’io, qualche volta. Avendo pubblicato libri, vinto concorsi letterari e altre amenità del genere, vado a vedere, illudendomi e disilludendomi ogni volta, se qualcuno ha lasciato una recensione, un apprezzamento, una critica, o se i miei libri, quelli che ancora si trovano, hanno scalato di un gradino le classifiche. L’ultima volta che ho inserito il mio nome nel motore di ricerca è stata ieri, dopo anni, e così ho fatto delle scoperte e un tuffo nei ricordi.

Tra le scoperte, per esempio, il fatto che alcuni dei libri per ragazzi che ho scritto sono stati segnalati e consigliati nei siti di letture per l’infanzia e adolescenza. Per esempio Il segreto di nonno Franz è stato consigliato dal sito “Leggere insieme a mamma e papà”. L’altro, Una notte nelle stelle, è segnalato dal sito “Libri per bambini e ragazzi”, e da “Il rosicchialibri”, oltre che da “Libri on air”, cassa di risonanza per gli autori vincitori del concorso Premio letterario cava de Tirreni, dove il libretto ha avuto una menzione per la copertina.

Tutto questo fa piacere, naturalmente. E fa rimpianto, perché questi minuscoli libri non sono già più in commercio. Hanno vissuto poco, una fiammata nel sovraffollato mondo editoriale, anche se io non li considero ancora morti. Tant’è vero che ne continuo a parlare e a cercare per loro un’occasione.

Poi ho scoperto anche che alcuni siti o blog dove si era parlato di me non ci sono più: pagine di cultura svanite nel nulla. Anche la memoria di internet non è eterna.

Ma poi è stato bello ritrovare altri segni di piccole felicità: interviste rilasciate in qualità di scrittrice, per esempio, o miei brevi articoli per blog letterari che ricevono ancora elogi e commenti. E poi tracce di presentazioni dei miei libri e quelli scritti con la Carboneria Letteraria. Quanti ricordi… Non posso proprio dire che non abbia avuto i miei momenti di gloria, effimera certo, ma vissuta sul momento con grande felicità. E con incredulità. Davvero succedeva proprio a me? Sì, davvero. Ed è stato un viaggio meraviglioso.

Ora vedo tra i miei contatti su Facebook, per lo più amici e conoscenti che scrivono o scrittori affermati, che la maggior parte di loro ha proseguito, ha pubblicato ancora, vive esperienze bellissime, si affanna per presentare le proprie creature, spia le classifiche di vendita, sollecita gli acquisti… Un po’ li invidio, tutti quanti. Perché so che significa, so quanto è appagante far volare un tuo figlio di carta, pensato, ponderato, scritto, corretto mille volte, mandato in giro in cerca di editori, e conosco la voglia di farlo arrivare a più lettori possibili. È pazzesco, emozionante, faticoso, a volte frustrante. Ma ti rende vivo e orgoglioso di quello che hai fatto.

Io, com’è noto, da tempo non scrivo più. Un po’ per le vicende della vita, un po’ per la sensazione di inadeguatezza tipica della sindrome dell’impostore di cui mi sembra di soffrire, un po’ perché mi sembra di aver già detto tutto quello che avevo da dire, di fatto non mi viene più niente. Non ho il tempo, la concentrazione, mi manca la fantasia. Ogni tanto si accende improvviso un barlume, fievole, che però presto si spegne. Oppure partecipo a concorsi letterari con i miei libri, perché voglio dare loro ancora un po’ di dignità. E non vinco più niente. Per ora non c’è altro. Non posso dire che sarà così per sempre, perché la vita toglie e dà e spesso sorprende, ma al momento va così. Però ho ripreso a scrivere su questo blog, e mi sembra di essere tornata alle origini. Se tornassi ancora più indietro, a quando osservavo la realtà, la scrivevo a mano su quaderni trasformandola in racconto e poi la ricopiavo con la macchina da scrivere del nonno, ecco, se tornassi a quel punto, allora forse comincerebbe un’altra avventura. E allora tornerei anche a fare più spesso la ricerca del mio nome su Google, per provare una volta di più l’emozione e la consapevolezza di aver lasciato qualche traccia di me nell’etere.

SAI COS’ERA BELLO A CAPODANNO?

31 dicembre 2022

Sai cos’era bello?

Ritrovarsi per mangiare insieme non importa cosa, brodo, o cotechino e lenticchie, a seconda della latitudine. Ritrovarsi in famiglia nonostante eventuali contrasti o antipatie che per una volta venivano messe da parte. E giocare a tombola, cercare disperatamente gli spiccioli, chiamare i numeri a gran voce e associarli a chissà che simboli (48 morto che parla? 77 le gambe delle donne?), dividersi pure l’ambo in caso di vincita e ambire alla cinquina o addirittura a ricoprire tutti i numeri della cartella. Per non parlare del tombolone, che chissà chi lo aveva inventato.

O giocare a carte: briscola, scopa, tressette, scala quaranta e discutere, anzi litigare, con chi barava, perché in ogni famiglia c’è sempre quello che imbroglia a carte.

Sai cos’era bello?

Aspettare la mezzanotte e sparare il tappo dello spumante sempre troppo in anticipo o troppo in ritardo, mai puntuale, e far bere un assaggio anche ai piccoli, per buon augurio. Mangiare il panettone anche se eri sazio da scoppiare. Guardare i fuochi d’artificio, restare a bocca aperta e non saper decidere quale fosse il più spettacolare, accontentandosi delle modeste e al contempo magiche scintille che scaturivano da un semplice bastoncino acceso con l’accendino. Per fortuna innocue, gioia per i bimbi.

Era bello poi il giorno dopo ricominciare a mangiare tutti insieme, giocare di nuovo a tombola o a carte, sentire al TG dove era nato il primo bambino del nuovo anno. E sperare sempre che non ci fossero vittime dell’insensatezza umana che porta a giocare con le bombe al posto delle scintille. Alla fine della giornata era bello digiunare dopo aver mangiato troppo per quasi 24 ore. E il giorno dopo il nuovo anno sarebbe stato un po’ meno nuovo, un amico che si era appena conosciuto e già sembrava familiare.

Sai cos’era bello?

Essere fiduciosi che il nuovo anno avrebbe portato bene, perché i neonati sono cosa buona e dolce e un anno che nasce non è che un anno bambino. E dimenticare il vecchio anno: nel bene e nel male era passato, restava solo l’incrollabile certezza che tutto sarebbe andato meglio. Si aveva poco, la fiducia non costava nulla, domani è un altro giorno, peggio non può andare.

Sai cos’era bello?

Tutte quelle sedie piene di vita, che ora hanno traslocato in un posto migliore, ad altre tavolate. Non si capisce quanto sia prezioso averle tutte occupate, fino a che non le vedi restare vuote, una a una, e la malinconia ti assale a tradimento.

Ma sai cosa c’è di bello ora?

No, non la guerra, non le malattie, non le violenze. Quelle sono tragedie, speri sempre che il nuovo anno le spazzi via, ma ogni anno nuovo ne porterà qualcuna con sè. Non c’è niente di bello nel sapere che ci sono dei ragazzi in trincea, con le armi, al freddo anche in questa notte di speranza, o quelli che lottano disarmati per la libertà di pensiero, e la cui vita si ferma a 20 anni. No, non c’è niente di bello quando si picchiano o si ammazzano bambini, donne, animali, anziani, creature indifese, che ti si spezza il cuore e pensi che il nuovo anno sia quello giusto perché tutto ciò non accada più. Ma non è mai l’anno giusto.

C’è però di bello che siamo ancora qui, che abbiamo maturato saggezza ed esperienza, che anche se non crediamo più alla fortuna e all’oroscopo e scopriamo un filo bianco in più tra i capelli abbiamo ancora qualcuno che ci abbraccia: ci vogliamo ancora bene e così sarà, ancora e ancora, fino che conteremo un altro nuovo anno nel nostro bagaglio.

C’è di bello che crediamo sempre all‘amore che resta quando non resta niente altro. All’amicizia vera che non si perde. Alla buona volontà di tanti, che manda avanti il mondo oltrepassando ogni difficoltà.

C’è di bello che un anno nuovo ricomincia, e la vita continua, finché sarà.

BUON 2023.

QUELLE LETTERE D’AMORE…

15 dicembre 2022

E niente. Ci speravo. Ne ero quasi sicura, mi sembrava troppo semplice, troppo comodo. Ci ero già passata qualche anno fa, era stata una splendida avventura che mi aveva regalato un secondo posto (con minimo scarto dal primo), una gita a Milano, la conoscenza di belle persone del mondo della cultura e il mio nome, con foto e intervista, su uno dei settimanali femminili più diffusi in Italia. Un concorso letterario insomma, cui, a distanza di diciassette anni, ho voluto partecipare per la seconda volta.

Mi sembrava anche abbastanza semplice, dicevo. C’era da scrivere una lettera d’amore. Che ci vuole in fondo? Ne ho scritte diverse, anche in un passato non proprio remotissimo.

Oddio, una l’ho scritta ad appena quindici anni ed era rivolta al mio amato professore. Lui l’ha letta, ma non ha retto. Se n’è vergognato, si è imbarazzato, tante mie compagne sapevano, solo lui non si era accorto… e mi ha tenuto a debita distanza. Giustamente, direi ora. E pensare che non era nemmeno una lettera sdolcinata. Mi pareva matura, scritta con lucidità e consapevolezza e non chiedeva niente, solo di raccontare un affetto che a quell’età dal vero mi mancava.

Poi ne ho scritte altre di lettere, nel privato, mai andate a buon fine. In ognuna mantenevo in qualche modo il pudore di chi fatica a dimostrare i sentimenti, mascherandoli dietro una dichiarata quanto ipocrita amicizia, ma vuole spiegarsi, capire. Scrivere e spedire quelle lettere significava spogliarsi, mettersi a nudo, nonostante evitassi di proposito frasi melense e dichiarazioni d’amore in senso classico. Di solito le scrivevo a chi già sapevo che non era interessato a me. Una specie di suicidio assistito, per mettere definitivamente la parola fine a un tormento che mi straziava l’anima. Mi pareva che l’altro dovesse per forza sapere come stavano le cose, anche se di me non gliene fregava una pippa.

Da allora ancora di più ho chiuso la porta ai sentimenti, nel senso che va bene innamorarsi, ma meglio non dimostrarlo. Soffrire in silenzio, gioire in silenzio, concedere il giusto.

Tuttavia io sono sempre stata una che scrive. E scrivere mi ha sempre liberato l’anima, alleggerito il cuore, allenato la mente.

Così una volta ho partecipato a un concorso letterario in cui bisognava scrivere una lettera d’amore, con una missiva indirizzata a chi era al mio fianco già da tempo. Non volevo nemmeno fargliela leggere, ma lui l’ha trovata e anche se non s’intendeva di letteratura e facevamo coppia già da mezza vita, in un suo modo rustico e commovente l’ha apprezzata. E ci credo: mettevo nero su bianco tutto l’amore che non ero in grado di dirgli a voce. L’hanno apprezzata anche a quel concorso, perché è stata selezionata per l’antologia che ha racchiuso le migliori lettere pervenute, e quindi pubblicata: “Duecento lettere d’amore”, Keltia edizioni, 1999. Che emozione… erano i miei primi piccoli successi.

Poi arriva quello grande, appunto. Il premio letterario del settimanale Intimità del 2005, dove l’amore la fa da padrone. Non era richiesta una lettera d’amore in senso stretto, ma io l’ho scritta come se lo fosse. Non era autobiografica, però racchiudeva molto di me, delle mie paure, come quella di perdere l’amore di una vita per una causa maligna, per una malattia. Paura vera, che è stata recepita e premiata con il secondo posto.

In tutto quello che scrivo c’è una parte di me, della mia vita e delle mie emozioni. Lo fanno tutti gli scrittori, anche chi parla di serial killer senza essere un assassino. E anche se io non sono una scrittrice, ho comunque scritto tanto, in questi anni, di tutto.

E allora, dopo diciassette anni, vuoi non riprovare il brivido di un concorso apparentemente facile?

Nuova edizione del premio letterario Intimità: scrivi una lettera d’amore.

Di nuovo. Che ci vuole a parlare d’amore, se l’ho sempre fatto? A modo mio, certo, con pudore, senza sdolcinature o melensaggini. Avevo anche in mente a chi indirizzarla. Come ho detto, chi scrive riversa nel proprio testo cose vere che vive, persone che incontra, sentimenti segreti, pensieri inconfessabili e pure una buona dose di fantasia. Anche io ho fatto così. Mi sono messa nei panni di una settantenne che scrive a un uomo che era stato la sua ossessione platonica vent’anni prima, quando lei aveva cinquant’anni e lui… trenta. Già. L’amore di una donna matura verso un ragazzo. Niente di nuovo, niente di impossibile ai giorni nostri, ma per la protagonista sì, si era trattata di una sbandata che riteneva non fosse possibile concretizzarsi. Per insicurezza, scarsa autostima, voglia di vivere un sogno puro senza compromessi, senza difficoltà. Un trasporto mai dichiarato, consumato come un’adolescente, in segreto. Poi una lontananza forzata, rivedere il ragazzo di un tempo ormai cinquantenne, ritrovarsi innamorata come vent’anni prima e scrivere una lettera con cui confessare quel passato segreto, invitarlo a incontrarsi, a conoscersi meglio. A lasciarsi andare, che l’amicizia, e l’amore, non hanno età.

A me sembrava una bella trama. Amore senile, ma amore. Perché non si smette mai di amare, se capita l’incontro giusto.

Non è piaciuta. La mia lettera non è rientrata nemmeno fra le prime 50. Un fallimento.

Al di là del dispiacere, che tutto sommato mi sembrava una storia carina da raccontare, questo episodio mi convince, una volta di più, che il periodo d’oro in cui vincevo i concorsi letterari è finito. Evidentemente non so più scrivere in modo convincente. Dovrei accettarlo serenamente, però non è così, mi fa un po’ male. Anche perché c’era per il vincitore la possibilità di collaborare con la rivista. Mica poco. Mi sarebbe davvero piaciuto provarci. Ma niente. Ho raggiunto tanti bellissimi risultati con la scrittura, anche se nessuno mi ha cambiato la vita. Scrivere era forse la cosa che ho sempre saputo fare meglio. Se non è più così, cos’è che mi resta? Cos’è che posso dire di saper fare?

Mi rileggo la mia ultima lettera d’amore, che forse resterà davvero l’ultima che scriverò in vita mia. A me piace. Mi piace immaginare che possa essere veritiera e possibile, mi piace figurarmi l’espressione di chi la potrebbe ricevere. E mi piace fantasticare sorridendo sul finale non scritto di questa storia, così vera, così inventata.

Come sempre, scrivere appaga il mio bisogno primario, quello di incanalare pensieri ed emozioni, inventare e trasformare. Alla fine è quello che conta davvero.

Forse la mia lettera, come tutte le escluse, sarà ripescata per un’altra iniziativa, dice il settimanale. Vedremo. Domani è un altro giorno.

UN MESE DA PENSIONATA

1 dicembre 2022

Le ricorrenze sono l’occasione per fare i bilanci, e questa non è da meno.

È un mese esatto che sono ufficialmente in pensione. Ancora mi fa effetto dirlo, perché la pensione si associa di solito a persone anziane, esauste, dedite solo ai nipotini e a un passo dalla casa di riposo. O dalla tomba. Io invece non sono niente di tutto questo. Sono ancora abbastanza giovane, la stanchezza l’ho dimenticata, non sono e non sarò mai nonna, e la casa di riposo la deciderà qualcun altro per me quando non sarò più in grado di badare a me stessa, e certo non ora. Idem, spero, per la tomba. Di fatto però l’INPS mi versa uno (scarso) vitalizio, acquisito regolarmente grazie alla maturazione dei requisiti necessari per una pensione tanto anticipata quanto lecita, agognata e sospirata. Semmai mi chiedo incredula se non c’è uno sbaglio, se è tutto vero, se prima o poi non mi richiederanno indietro i soldi versati… Non si sa mai.

Questo da un mese. Il mio primo mese da pensionata.

Il primo pensiero che faccio nel mio bilancio è che sebbene non mi trovi anagraficamente nella terza età non mi sento in colpa, non mi sento di aver rubato niente: mi sento invece dove volevo essere, per sopraggiunto esaurimento di forza lavorativa.

Chi mi conosce e mi segue da tempo sa che il lavoro di infermiera ha assorbito tantissime delle mie energie emotive e alla lunga anche fisiche. Per 29 anni ho lavorato su turni, notti e festività comprese, sacrificando una vita “normale” alle esigenze di reparto, ma soprattutto dei pazienti. Gli ultimi anni invece sono stati al front-office, allo sportello ad affrontare bisogni diversi, necessità comunque pressanti, a cui non mi sono mai sottratta, anzi, che ho cercato di risolvere per quanto nelle mie capacità, fosse solo di ascolto.

Appunto. Non mi sono mai risparmiata: da sempre ligia al dovere ho fatto di tutto per svolgere il mio compito al meglio. È così che sono cresciuta, fin dalle elementari: c’è un compito da fare? Bisogna farlo bene. Hai un lavoro? Fallo al meglio delle tue possibilità. Ma la natura non mi ha dotato di un fisico possente e resistente. Posso vantare di essere campionessa di resilienza, ma le strutture si usurano, anche quelle mentali.

Sono uscita dal servizio al momento giusto. E questo è quanto.

E dunque, seconda riflessione, cosa ne traggo da questo primo mese di libertà? Che la libertà è relativa e gli impegni di vita sono sempre complessi, ma il solo fatto di non avere la restrizione del cartellino da timbrare, di una sveglia da puntare, di orari prestabiliti che decidono della tua vita, è una condizione impagabile. Che lo dico a fare. Non ho cose eccezionali da sbrigare, record da battere, imprese stratosferiche, viaggi transoceanici… semplicemente ho da vivere. Mettere una dietro l’altra le ore della giornata come vengono, come sono più funzionali alla mia famiglia, o a me. Fare una passeggiata quando mi va, andare in piscina quando ne ho voglia, mangiare quando ho fame, uscire quando di solito starei a casa, eccetera.

E dunque la seconda considerazione di questo primo mese la chiamerei piccola ribellione alle regole imposte, in qualche modo, dai doveri relativi al lavoro.

Punto terzo. Dormire. Quanto ho dormito e sto dormendo! Neanche avessi da recuperare tutto il sonno del mondo. Ho sempre adorato poltrire la mattina sotto le coperte, alzarmi con comodo, senza fretta, tirare tardi la notte guardando alla tv un film, uno spettacolo, o leggendo un libro. Sono, da sempre, più gufo che allodola.

Ritorno alle mie abitudini, al mio modo di essere, al mio personale ciclo circadiano.

Ci sarebbero un milione di altre cose da ricordare, in questo bilancio. Ma ne voglio sottolineare, con emozione, ancora una soltanto. L’affetto che ho riscontrato al momento degli addii. Ho festeggiato con colleghe vecchie e nuove e con vecchi compagni di viaggio nell’avventura ospedaliera. Ho ricevuto tanti regali, tante parole sincere e non scontate. Quando c’è chi mi dice di essere stata contenta di aver fatto un pezzo di strada con me, o di avermi conosciuta, o di avermi sempre stimata, quando ritrovarsi vuole dire sentirsi a casa, io sento di aver seminato bene nel mio percorso. Di aver raggiunto il mio obiettivo di fare tutto al meglio.

Niente posso chiedere di più. Niente potrei dare di più. I tempi sono quelli giusti. Una parentesi importante si è chiusa definitivamente. Se ne apre un’altra, quanto lunga impossibile dirlo ora, pensare al futuro mi ha sempre un po’ terrorizzato, perciò ne faccio a meno e vivo il presente.

Al meglio che posso, come sempre.

RIPARTIAMO

1 dicembre 2022

Ripartiamo. Dopo quasi tre anni di pandemia, peraltro non ancora cessati, la vita è ripresa, quasi in modo normale. E per normalità si intende esattamente tutto quello che c’era anche prima, e anche peggio. Perché nonostante tutto non siamo cambiati in meglio. Anzi. Ci siamo inaspriti, incattiviti, isolati nel nostro egoismo. La paura ci ha fatti concentrare su noi stessi, e al diavolo gli altri. Tutti per uno, ognuno per sé. E quindi ci sono ancora le guerre, sì. Ce ne sono pure di nuove, non bastasse la precarietà dell’umanità di fronte al virus malefico. Da nove mesi l’Ucraina si difende dall’aggressione della Russia, tra bombe, morti, distruzione, dolore indicibile. L’Africa è sempre serbatoio di guerriglie e violenze ai danni dei più poveri. Ogni tanto qualche attentato in Medio Oriente, per non dimenticarci che anche lì si viaggia sul filo del rasoio. E tutto intorno la violenza nascosta del capitalismo occidentale, dove i diritti civili spesso sono rispettati solo in via teorica, dove le persone bisognose di fronte a una crisi economica incalzante sono sempre più numerose, e dove l’ingordigia di chi siede ai posti di comando acceca ogni ragionevolezza e ogni ipotesi di fratellanza.

E poi, niente di nuovo nemmeno qui, incurante dei problemi economici derivati dalla pandemia, ecco i “soliti” disastri ambientali, tragedie annunciate che nessuno si preoccupa di prevenire. Un mese fa la mia amata Senigallia, ora Ischia, per la seconda volta in sedici anni. Domani a chi toccherà? L’uomo ha colpevolmente trascurato di prendersi cura dell’ecosistema, singoli o istituzioni hanno incassato fondi destinati a interventi migliorativi e noi stiamo qui a parlare di morti da alluvioni, terremoti e quant’altro, ogni due per tre.

No, niente è cambiato, rispetto a tre anni fa.

La sanità pubblica è stata calpestata, deprivata di fondi e personale, e pure di motivazione, nonostante i morti tra medici e infermieri che si sono presi cura dei malati di covid a mani nude. Eroi. Poi dimenticati. L’ombra di profitti da intascare per i propri interessi in questo campo ci seppellirà presto tutti. Perché non basta la buona volontà e il sacrificio dei singoli che ancora ci credono, bisogna mettere mano nel profondo e riorganizzare tutto con coscienza. Altrimenti non avremo più alcun modo di curare noi stessi e i nostri discendenti.

Qualcosa è cambiato per me.

Io non sono più una infermiera. Non lavoro più in prima linea e nemmeno nelle retrovie della sanità. Sono andata in pensione, anticipata, in età ancora giovanile. Sto cercando di riprendere in mano la mia vita, farne una vita normale. Per questo provo a riaprire le pagine di questo blog. Non lo so se avrò continuità, se avrò qualcosa da raccontare e il tempo di farlo. Ma voglio provare a vedere se sono ancora in grado di elaborare un pensiero non troppo compresso dai limiti dei social. Non importa se non avrò lettori. In quest’epoca dove si vive per la visibilità ad ogni costo, il mio blog, che si chiama “In punta di piedi”, non ha mai sgomitato per mettersi in luce. È qui solo per me, da diciassette anni, esclusi gli anni della pandemia dove il cervello si era ibernato su problemi più contingenti, il tempo non esisteva e la vita era solo sopravvivenza.

Ora riprendo possesso delle mie facoltà mentali, del mio tempo, della mia voglia di ragionare e scrivere. O almeno ci provo. Senza aspettative o programmi.

L’importante, è ripartire.