Io non ho il suo numero di telefono. E neanche un indirizzo cui scrivergli. Ma se potessi comunicare con lui gli dire grazie.
Grazie, caro Marco Mengoni.
Grazie di esistere.
Marco è un ragazzo che non si vergogna di mostrare in pubblico la propria fragilità, la sua emozione, che si concede ampiamente ai fan adoranti pur mantenendo quel sacrosanto diritto alla propria privacy. È un cantante dotato di una voce che è uno strumento musicale in sé e che lui governa alla perfezione, ma anche se non fosse perfetto (a volte sembra dotato di vita propria), va bene uguale, perché poi chi se ne accorge delle imprecisioni quando il risultato è la vibrazione dell’anima.
Ho cominciato a seguire Mengoni una decina di anni fa, a partire dalla sua prima vittoria a Sanremo con la canzone dal titolo L’essenziale. C’era chi lo prendeva in giro per l’aspetto stralunato che lo caratterizzava nei giorni del Festival, chi smontava le parole della sua bellissima canzone, chi lo criticava bollandolo come la solita nullità uscita da un talent.
Eppure aveva vinto. Quell’aspetto stralunato a guardarlo bene si capiva che era solo emozione. Lui aveva appena 24 anni, una sensibilità esagerata, l’aria di chi si sentiva inadeguato in un mondo incomprensibile. Tuttavia aveva cantato, probabilmente contro se stesso, con quella voce che sa arpeggiare in un modo unico, e aveva conquistato il trofeo. Mi aveva incuriosito, mi aveva fatto tenerezza, come non mi capita spesso con i cantanti. I talent non li seguo, non mi ritrovo nel rap e nel trap che dilagano in un modo incomprensibile, quelli a cui ero e sono affezionata sono artisti di una certa età, che hanno fatto la storia della musica soprattutto italiana, ma anche del mondo. Ma in questo ragazzo avevo notato da subito qualcosa di inconsueto: la gentilezza, la timidezza, la sincerità.
Ho cominciato a comprare la sua musica. Mi ha accompagnata in un periodo incredibile del mio percorso umano, a volte ritrovandomi nelle sue parole. Parole che, per inciso, non sono da considerare letteratura, a volte si ripetono, eppure a modo loro sono poesia. Quando ti colpiscono, quando ci fai caso, quando ti ci ritrovi, le parole di una semplice canzone sono sempre poesia. La musica poi non era banale, non era simile a quello che avevo sempre cantato, ma nemmeno si poteva accostare al genere imperante delle nuove generazioni. La musica aveva una sua forte personalità. Orecchiabile ma non facilissima (perché, diciamolo, chi può mai arrivare alle tonalità di un Mengoni in stato di grazia?). E siccome non sono un’esperta, ho letto, mi sono informata, e ho scoperto che la naturale vocazione di questo artista sta nella contaminazione con tanti altri generi e nella ricerca, che poi frutta, appunto, un’impronta assolutamente originale.
Insomma, a me le definizioni tecniche non importano un fico secco, quello che conta è la sensazione che una canzone mi regala. E il benessere che mi investe con le canzoni di Marco non lo avvertivo da molto tempo, da quando, da ragazza, avevo altri miti.
Ecco, il mito.
Maro Mengoni è ormai ufficialmente il mio nuovo mito.
Pochi anni fa ho visto il primo concerto. Mi ha incantato. Oltre alla voce, incredibile dal vivo, tutto lo spettacolo è stato entusiasmante. Il coro, i filmati, le luci, il messaggio ecologista. I colori dell’anima, della musica. La passione, la delicatezza. La sensibilità gigantesca, che negli anni si è perfino accentuata. Dal concerto in poi mi sono definitivamente consacrata fan, anzi ultra fan. Nonostante la mia età non più verdissima, ho ripreso, come quando ero ragazza, ad ascoltare in loop le canzoni di colui che mi stava entrando sempre più nel cuore, a cercare pure di impararle a memoria Ahimè, la memoria è sempre più scarsa, ma lo considero un ottimo esercizio contro la demenza, e lo consiglio a tutti. In quanto alle tonalità, sono decisamente inarrivabili, almeno per me che sono stonata come la classica campana (che però va d’accordo con la carampana che sono), ma, di nuovo, e per sempre, chi se ne frega!!! E se non mi metto a collezionare foto, ritagli, articoli che parlano di lui e delle canzoni è solo per decenza, perché con alle spalle una vita piena non saprei dove metterli. E in ogni caso, grazie Spotify, che mi risparmi almeno di ricopiare i testi delle canzoni…
Anche quest’anno Marco ha vinto il festival di Sanremo, il secondo. La canzone regina stavolta si chiama Due vite, ed è già un tormento. Ho scritto bene: non un tormentone (volendo, anche), ma un tormento. Una splendida canzone.
La differenza con il festival di dieci anni fa salta subito agli occhi. E fa innamorare ancora di più. Il ragazzo timido ha lasciato il posto a un uomo più sicuro di sé, che non ha perso la sensibilità, ma che non ne fa più mistero. Un giovane uomo che ha fatto esperienza, che ha pianto al suo primo stadio colmo all’inverosimile, che ha affinato una voce di per sé già quasi miracolosa, che ha imparato a prendere le distanze dall’emotività, per giocarsela a suo favore. Ed è così che vince Sanremo, grazie a una canzone che mi fa letteralmente venire la pelle d’oca quando l’ascolto, anche adesso, anche a distanza di mesi, e che nell’interpretazione unica e irripetibile di Mengoni non può fare a meno di farmi scendere due lacrime di commozione. Mai avevo sentito la partecipazione così viscerale di un cantante mentre canta una sua canzone. E a memoria sono stati pochissimi nel passato i brani che mi hanno saputo commuovere, e in ogni caso non tanto come questa. Perché le altre volte mi colpiva magari il testo, ma in questa ciò che mi dilania è l’intensità dell’emozione dell’artista. Vittoria meritata a Sanremo, senza storia, senza se e senza ma.
E siamo all‘Eurovision Song Contest di ieri sera. La manifestazione canora europea in cui il vincitore di Sanremo è chiamato a rappresentare l’Italia è un vero circo, un luogo di ritrovo di musica, gioco, travestimento, pazzia. Un luogo in cui ognuno fa musica come gli pare, dove si vedono gli spettacoli più pirotecnici, i travestimenti più pazzi, dove si incontrano etnie, sonorità, tradizioni, folklore di tutti i Paesi d’Europa, in un clima di libertà, fratellanza, di pace e divertimento. Certo, c’è la gara, ci sono le votazioni e alla fine ci deve essere un vincitore, scelto dalle giurie degli altri Paesi, che non possono votare il proprio cantante, e dal pubblico con il televoto. Diciamo anche che tutto questo non vuol dire che sia rappresentata la musica migliore del nostro continente, il tutto è abbastanza, e simpaticamente, anche piuttosto kitsch, ma lo spettacolo è folle, multicolore, pazzesco, alla fine divertente e godibile. Da alcuni anni non me ne perdo uno!
E quest’anno, cioè ieri, Marco è stato il nostro rappresentante, ancora con Due vite. E ancora una volta mi ha stesa. Ancora più del solito. Non mi rialzo più.
In un circo assurdo di urlatori folli, di balletti, di maschere e trucchi esagerati, la sua esibizione è destinata a restare nella storia. La semplicità di una scenografia in bianco e nero, per niente rutilante, ma serena pur nel significato esplicito del contrasto fra le due vite di ciascuno, una alla luce del sole e quella ombrosa della notte. Quella voce pazzesca, ancora più appassionata del solito, così tanto da non reggere all’emozione proprio nell’ultima nota, sussurrata, smozzicata, quasi singhiozzata. Quella figura elegante ma non classica, di una bellezza imbarazzante, che proprio alla fine di quell’ultima nota crolla in ginocchio, preda della sua stessa commozione. Ecco, ancora una volta pure io mi sono sciolta in due lacrimucce: altro che due vite, ogni volta sono proprio due lacrimone che non riesco a trattenere.
Non c’è paragone col resto del circo, non c’è storia. Sembra impossibile non vincere, come fa un cuore a resistere? Eppure è così.
Mengoni non vince, arriva perfino quarto, che pure è un ottimo risultato, ma non quello che avrebbe meritato. Ha vinto invece una canzone di quelle che a me non dice nulla, come le altre due arrivate sul podio, tutte accompagnate da un grande spettacolo, ma dove sta l’emozione? Non esiste, pura merce commerciabile.
Per fortuna già prima dello spettacolo Due vite è stata premiata come migliore composizione musicale, un premio della critica, un premio serio, a dimostrazione che almeno la qualità non è una opzione. E niente Marcolino, va bene così. Va bene, benissimo, come la tua entrata nell’arena con la bandiera italiana da un lato e quella arcobaleno dall’altra, unico del circo a rappresentare la pace e i diritti delle minoranze maltrattate, un gesto che rende l’idea del rispetto dell’uomo per l’uomo e dell’amore per la libertà di essere ognuno come gli pare.
Grazie ai social ho potuto seguire passo passo tutto quello che ha fatto questo ragazzo nei giorni prima della finale. Perché lui condivide moltissimo con i suoi fan, e quando gli arrivi vicino è disponibile come pochi a farsi toccare, a salutare, a fare i selfie. Tutti lo adorano. Lo adoriamo.
Grazie ai social, dicevo, ho visto la sua gioia genuina di essere lì a Liverpool di conoscere tanti colleghi e ragazzi come lui e apprezzarli con pieno spirito ecumenico, lui che ama l’armonia nei popoli, le contaminazioni e prendere spunti. Ho visto il mini concerto prima della finale scatenare l’entusiasmo non solo degli italiani lì residenti per vari motivi, ma anche degli stranieri, che non capivano una mazza delle parole, ma erano entusiasti di una musica mai banale, di una voce quasi angelica ma potente, di una prestanza fisica notevole. Ho visto anche la serenità di Marco nell’ammettere che la classifica non gli importava poi tanto, che lui era lì per la musica, per farsi conoscere, per divertirsi.
Così è stato, caro Marco. Ti sei divertito tu, ci siamo divertiti noi, ci siamo emozionati tutti. Hai vinto ugualmente, ho visto con i miei occhi i messaggi di persone di altre nazioni che garantivano il voto per te.
Continuerò a seguirti ovviamente, ho già in programma il prossimo tuo concerto dal vivo. Figurati se me lo perdo!
Ecco, se avessi un modo di contattarti, caro Marco, ti direi grazie. Grazie per quello che sei, grazie per la tua musica e per la nuova carica che mi hai regalato, grazie per il tuo sorriso sereno. Grazie perché sei una bella persona, si sentiva il bisogno di uno come te.
Grazie per ieri sera, per il fair play, per l’assenza di invidia, per la generosità.
Grazie per il tuo esempio.
Non cambiare mai. Fammi sognare ancora, come la ragazza che ero tanto tempo fa.