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MARCO MENGONI, LE SUE DUE VITE, IL MITO NEL SECONDO TEMPO DELLA MIA VITA.

14 Maggio 2023

Io non ho il suo numero di telefono. E neanche un indirizzo cui scrivergli. Ma se potessi comunicare con lui gli dire grazie.

Grazie, caro Marco Mengoni.

Grazie di esistere.

Marco è un ragazzo che non si vergogna di mostrare in pubblico la propria fragilità, la sua emozione, che si concede ampiamente ai fan adoranti pur mantenendo quel sacrosanto diritto alla propria privacy. È un cantante dotato di una voce che è uno strumento musicale in sé e che lui governa alla perfezione, ma anche se non fosse perfetto (a volte sembra dotato di vita propria), va bene uguale, perché poi chi se ne accorge delle imprecisioni quando il risultato è la vibrazione dell’anima.

Ho cominciato a seguire Mengoni una decina di anni fa, a partire dalla sua prima vittoria a Sanremo con la canzone dal titolo L’essenziale. C’era chi lo prendeva in giro per l’aspetto stralunato che lo caratterizzava nei giorni del Festival, chi smontava le parole della sua bellissima canzone, chi lo criticava bollandolo come la solita nullità uscita da un talent.

Eppure aveva vinto. Quell’aspetto stralunato a guardarlo bene si capiva che era solo emozione. Lui aveva appena 24 anni, una sensibilità esagerata, l’aria di chi si sentiva inadeguato in un mondo incomprensibile. Tuttavia aveva cantato, probabilmente contro se stesso, con quella voce che sa arpeggiare in un modo unico, e aveva conquistato il trofeo. Mi aveva incuriosito, mi aveva fatto tenerezza, come non mi capita spesso con i cantanti. I talent non li seguo, non mi ritrovo nel rap e nel trap che dilagano in un modo incomprensibile, quelli a cui ero e sono affezionata sono artisti di una certa età, che hanno fatto la storia della musica soprattutto italiana, ma anche del mondo. Ma in questo ragazzo avevo notato da subito qualcosa di inconsueto: la gentilezza, la timidezza, la sincerità.

Ho cominciato a comprare la sua musica. Mi ha accompagnata in un periodo incredibile del mio percorso umano, a volte ritrovandomi nelle sue parole. Parole che, per inciso, non sono da considerare letteratura, a volte si ripetono, eppure a modo loro sono poesia. Quando ti colpiscono, quando ci fai caso, quando ti ci ritrovi, le parole di una semplice canzone sono sempre poesia. La musica poi non era banale, non era simile a quello che avevo sempre cantato, ma nemmeno si poteva accostare al genere imperante delle nuove generazioni. La musica aveva una sua forte personalità. Orecchiabile ma non facilissima (perché, diciamolo, chi può mai arrivare alle tonalità di un Mengoni in stato di grazia?). E siccome non sono un’esperta, ho letto, mi sono informata, e ho scoperto che la naturale vocazione di questo artista sta nella contaminazione con tanti altri generi e nella ricerca, che poi frutta, appunto, un’impronta assolutamente originale.

Insomma, a me le definizioni tecniche non importano un fico secco, quello che conta è la sensazione che una canzone mi regala. E il benessere che mi investe con le canzoni di Marco non lo avvertivo da molto tempo, da quando, da ragazza, avevo altri miti.

Ecco, il mito.

Maro Mengoni è ormai ufficialmente il mio nuovo mito.

Pochi anni fa ho visto il primo concerto. Mi ha incantato. Oltre alla voce, incredibile dal vivo, tutto lo spettacolo è stato entusiasmante. Il coro, i filmati, le luci, il messaggio ecologista. I colori dell’anima, della musica. La passione, la delicatezza. La sensibilità gigantesca, che negli anni si è perfino accentuata. Dal concerto in poi mi sono definitivamente consacrata fan, anzi ultra fan. Nonostante la mia età non più verdissima, ho ripreso, come quando ero ragazza, ad ascoltare in loop le canzoni di colui che mi stava entrando sempre più nel cuore, a cercare pure di impararle a memoria Ahimè, la memoria è sempre più scarsa, ma lo considero un ottimo esercizio contro la demenza, e lo consiglio a tutti. In quanto alle tonalità, sono decisamente inarrivabili, almeno per me che sono stonata come la classica campana (che però va d’accordo con la carampana che sono), ma, di nuovo, e per sempre, chi se ne frega!!! E se non mi metto a collezionare foto, ritagli, articoli che parlano di lui e delle canzoni è solo per decenza, perché con alle spalle una vita piena non saprei dove metterli. E in ogni caso, grazie Spotify, che mi risparmi almeno di ricopiare i testi delle canzoni…

Anche quest’anno Marco ha vinto il festival di Sanremo, il secondo. La canzone regina stavolta si chiama Due vite, ed è già un tormento. Ho scritto bene: non un tormentone (volendo, anche), ma un tormento. Una splendida canzone.

La differenza con il festival di dieci anni fa salta subito agli occhi. E fa innamorare ancora di più. Il ragazzo timido ha lasciato il posto a un uomo più sicuro di sé, che non ha perso la sensibilità, ma che non ne fa più mistero. Un giovane uomo che ha fatto esperienza, che ha pianto al suo primo stadio colmo all’inverosimile, che ha affinato una voce di per sé già quasi miracolosa, che ha imparato a prendere le distanze dall’emotività, per giocarsela a suo favore. Ed è così che vince Sanremo, grazie a una canzone che mi fa letteralmente venire la pelle d’oca quando l’ascolto, anche adesso, anche a distanza di mesi, e che nell’interpretazione unica e irripetibile di Mengoni non può fare a meno di farmi scendere due lacrime di commozione. Mai avevo sentito la partecipazione così viscerale di un cantante mentre canta una sua canzone. E a memoria sono stati pochissimi nel passato i brani che mi hanno saputo commuovere, e in ogni caso non tanto come questa. Perché le altre volte mi colpiva magari il testo, ma in questa ciò che mi dilania è l’intensità dell’emozione dell’artista. Vittoria meritata a Sanremo, senza storia, senza se e senza ma.

E siamo all‘Eurovision Song Contest di ieri sera. La manifestazione canora europea in cui il vincitore di Sanremo è chiamato a rappresentare l’Italia è un vero circo, un luogo di ritrovo di musica, gioco, travestimento, pazzia. Un luogo in cui ognuno fa musica come gli pare, dove si vedono gli spettacoli più pirotecnici, i travestimenti più pazzi, dove si incontrano etnie, sonorità, tradizioni, folklore di tutti i Paesi d’Europa, in un clima di libertà, fratellanza, di pace e divertimento. Certo, c’è la gara, ci sono le votazioni e alla fine ci deve essere un vincitore, scelto dalle giurie degli altri Paesi, che non possono votare il proprio cantante, e dal pubblico con il televoto. Diciamo anche che tutto questo non vuol dire che sia rappresentata la musica migliore del nostro continente, il tutto è abbastanza, e simpaticamente, anche piuttosto kitsch, ma lo spettacolo è folle, multicolore, pazzesco, alla fine divertente e godibile. Da alcuni anni non me ne perdo uno!

E quest’anno, cioè ieri, Marco è stato il nostro rappresentante, ancora con Due vite. E ancora una volta mi ha stesa. Ancora più del solito. Non mi rialzo più.

In un circo assurdo di urlatori folli, di balletti, di maschere e trucchi esagerati, la sua esibizione è destinata a restare nella storia. La semplicità di una scenografia in bianco e nero, per niente rutilante, ma serena pur nel significato esplicito del contrasto fra le due vite di ciascuno, una alla luce del sole e quella ombrosa della notte. Quella voce pazzesca, ancora più appassionata del solito, così tanto da non reggere all’emozione proprio nell’ultima nota, sussurrata, smozzicata, quasi singhiozzata. Quella figura elegante ma non classica, di una bellezza imbarazzante, che proprio alla fine di quell’ultima nota crolla in ginocchio, preda della sua stessa commozione. Ecco, ancora una volta pure io mi sono sciolta in due lacrimucce: altro che due vite, ogni volta sono proprio due lacrimone che non riesco a trattenere.

Non c’è paragone col resto del circo, non c’è storia. Sembra impossibile non vincere, come fa un cuore a resistere? Eppure è così.

Mengoni non vince, arriva perfino quarto, che pure è un ottimo risultato, ma non quello che avrebbe meritato. Ha vinto invece una canzone di quelle che a me non dice nulla, come le altre due arrivate sul podio, tutte accompagnate da un grande spettacolo, ma dove sta l’emozione? Non esiste, pura merce commerciabile.

Per fortuna già prima dello spettacolo Due vite è stata premiata come migliore composizione musicale, un premio della critica, un premio serio, a dimostrazione che almeno la qualità non è una opzione. E niente Marcolino, va bene così. Va bene, benissimo, come la tua entrata nell’arena con la bandiera italiana da un lato e quella arcobaleno dall’altra, unico del circo a rappresentare la pace e i diritti delle minoranze maltrattate, un gesto che rende l’idea del rispetto dell’uomo per l’uomo e dell’amore per la libertà di essere ognuno come gli pare.

Grazie ai social ho potuto seguire passo passo tutto quello che ha fatto questo ragazzo nei giorni prima della finale. Perché lui condivide moltissimo con i suoi fan, e quando gli arrivi vicino è disponibile come pochi a farsi toccare, a salutare, a fare i selfie. Tutti lo adorano. Lo adoriamo.

Grazie ai social, dicevo, ho visto la sua gioia genuina di essere lì a Liverpool di conoscere tanti colleghi e ragazzi come lui e apprezzarli con pieno spirito ecumenico, lui che ama l’armonia nei popoli, le contaminazioni e prendere spunti. Ho visto il mini concerto prima della finale scatenare l’entusiasmo non solo degli italiani lì residenti per vari motivi, ma anche degli stranieri, che non capivano una mazza delle parole, ma erano entusiasti di una musica mai banale, di una voce quasi angelica ma potente, di una prestanza fisica notevole. Ho visto anche la serenità di Marco nell’ammettere che la classifica non gli importava poi tanto, che lui era lì per la musica, per farsi conoscere, per divertirsi.

Così è stato, caro Marco. Ti sei divertito tu, ci siamo divertiti noi, ci siamo emozionati tutti. Hai vinto ugualmente, ho visto con i miei occhi i messaggi di persone di altre nazioni che garantivano il voto per te.

Continuerò a seguirti ovviamente, ho già in programma il prossimo tuo concerto dal vivo. Figurati se me lo perdo!

Ecco, se avessi un modo di contattarti, caro Marco, ti direi grazie. Grazie per quello che sei, grazie per la tua musica e per la nuova carica che mi hai regalato, grazie per il tuo sorriso sereno. Grazie perché sei una bella persona, si sentiva il bisogno di uno come te.

Grazie per ieri sera, per il fair play, per l’assenza di invidia, per la generosità.

Grazie per il tuo esempio.

Non cambiare mai. Fammi sognare ancora, come la ragazza che ero tanto tempo fa.

https://www.raiplay.it/video/2023/05/Eurovision-Song-Contest-2023—Italia-Marco-Mengoni-canta-Due-vite—13052023-68f5d0f0-1573-409c-aa73-102648b197e3.html

SAI COS’ERA BELLO A CAPODANNO?

31 dicembre 2022

Sai cos’era bello?

Ritrovarsi per mangiare insieme non importa cosa, brodo, o cotechino e lenticchie, a seconda della latitudine. Ritrovarsi in famiglia nonostante eventuali contrasti o antipatie che per una volta venivano messe da parte. E giocare a tombola, cercare disperatamente gli spiccioli, chiamare i numeri a gran voce e associarli a chissà che simboli (48 morto che parla? 77 le gambe delle donne?), dividersi pure l’ambo in caso di vincita e ambire alla cinquina o addirittura a ricoprire tutti i numeri della cartella. Per non parlare del tombolone, che chissà chi lo aveva inventato.

O giocare a carte: briscola, scopa, tressette, scala quaranta e discutere, anzi litigare, con chi barava, perché in ogni famiglia c’è sempre quello che imbroglia a carte.

Sai cos’era bello?

Aspettare la mezzanotte e sparare il tappo dello spumante sempre troppo in anticipo o troppo in ritardo, mai puntuale, e far bere un assaggio anche ai piccoli, per buon augurio. Mangiare il panettone anche se eri sazio da scoppiare. Guardare i fuochi d’artificio, restare a bocca aperta e non saper decidere quale fosse il più spettacolare, accontentandosi delle modeste e al contempo magiche scintille che scaturivano da un semplice bastoncino acceso con l’accendino. Per fortuna innocue, gioia per i bimbi.

Era bello poi il giorno dopo ricominciare a mangiare tutti insieme, giocare di nuovo a tombola o a carte, sentire al TG dove era nato il primo bambino del nuovo anno. E sperare sempre che non ci fossero vittime dell’insensatezza umana che porta a giocare con le bombe al posto delle scintille. Alla fine della giornata era bello digiunare dopo aver mangiato troppo per quasi 24 ore. E il giorno dopo il nuovo anno sarebbe stato un po’ meno nuovo, un amico che si era appena conosciuto e già sembrava familiare.

Sai cos’era bello?

Essere fiduciosi che il nuovo anno avrebbe portato bene, perché i neonati sono cosa buona e dolce e un anno che nasce non è che un anno bambino. E dimenticare il vecchio anno: nel bene e nel male era passato, restava solo l’incrollabile certezza che tutto sarebbe andato meglio. Si aveva poco, la fiducia non costava nulla, domani è un altro giorno, peggio non può andare.

Sai cos’era bello?

Tutte quelle sedie piene di vita, che ora hanno traslocato in un posto migliore, ad altre tavolate. Non si capisce quanto sia prezioso averle tutte occupate, fino a che non le vedi restare vuote, una a una, e la malinconia ti assale a tradimento.

Ma sai cosa c’è di bello ora?

No, non la guerra, non le malattie, non le violenze. Quelle sono tragedie, speri sempre che il nuovo anno le spazzi via, ma ogni anno nuovo ne porterà qualcuna con sè. Non c’è niente di bello nel sapere che ci sono dei ragazzi in trincea, con le armi, al freddo anche in questa notte di speranza, o quelli che lottano disarmati per la libertà di pensiero, e la cui vita si ferma a 20 anni. No, non c’è niente di bello quando si picchiano o si ammazzano bambini, donne, animali, anziani, creature indifese, che ti si spezza il cuore e pensi che il nuovo anno sia quello giusto perché tutto ciò non accada più. Ma non è mai l’anno giusto.

C’è però di bello che siamo ancora qui, che abbiamo maturato saggezza ed esperienza, che anche se non crediamo più alla fortuna e all’oroscopo e scopriamo un filo bianco in più tra i capelli abbiamo ancora qualcuno che ci abbraccia: ci vogliamo ancora bene e così sarà, ancora e ancora, fino che conteremo un altro nuovo anno nel nostro bagaglio.

C’è di bello che crediamo sempre all‘amore che resta quando non resta niente altro. All’amicizia vera che non si perde. Alla buona volontà di tanti, che manda avanti il mondo oltrepassando ogni difficoltà.

C’è di bello che un anno nuovo ricomincia, e la vita continua, finché sarà.

BUON 2023.

UN MESE DA PENSIONATA

1 dicembre 2022

Le ricorrenze sono l’occasione per fare i bilanci, e questa non è da meno.

È un mese esatto che sono ufficialmente in pensione. Ancora mi fa effetto dirlo, perché la pensione si associa di solito a persone anziane, esauste, dedite solo ai nipotini e a un passo dalla casa di riposo. O dalla tomba. Io invece non sono niente di tutto questo. Sono ancora abbastanza giovane, la stanchezza l’ho dimenticata, non sono e non sarò mai nonna, e la casa di riposo la deciderà qualcun altro per me quando non sarò più in grado di badare a me stessa, e certo non ora. Idem, spero, per la tomba. Di fatto però l’INPS mi versa uno (scarso) vitalizio, acquisito regolarmente grazie alla maturazione dei requisiti necessari per una pensione tanto anticipata quanto lecita, agognata e sospirata. Semmai mi chiedo incredula se non c’è uno sbaglio, se è tutto vero, se prima o poi non mi richiederanno indietro i soldi versati… Non si sa mai.

Questo da un mese. Il mio primo mese da pensionata.

Il primo pensiero che faccio nel mio bilancio è che sebbene non mi trovi anagraficamente nella terza età non mi sento in colpa, non mi sento di aver rubato niente: mi sento invece dove volevo essere, per sopraggiunto esaurimento di forza lavorativa.

Chi mi conosce e mi segue da tempo sa che il lavoro di infermiera ha assorbito tantissime delle mie energie emotive e alla lunga anche fisiche. Per 29 anni ho lavorato su turni, notti e festività comprese, sacrificando una vita “normale” alle esigenze di reparto, ma soprattutto dei pazienti. Gli ultimi anni invece sono stati al front-office, allo sportello ad affrontare bisogni diversi, necessità comunque pressanti, a cui non mi sono mai sottratta, anzi, che ho cercato di risolvere per quanto nelle mie capacità, fosse solo di ascolto.

Appunto. Non mi sono mai risparmiata: da sempre ligia al dovere ho fatto di tutto per svolgere il mio compito al meglio. È così che sono cresciuta, fin dalle elementari: c’è un compito da fare? Bisogna farlo bene. Hai un lavoro? Fallo al meglio delle tue possibilità. Ma la natura non mi ha dotato di un fisico possente e resistente. Posso vantare di essere campionessa di resilienza, ma le strutture si usurano, anche quelle mentali.

Sono uscita dal servizio al momento giusto. E questo è quanto.

E dunque, seconda riflessione, cosa ne traggo da questo primo mese di libertà? Che la libertà è relativa e gli impegni di vita sono sempre complessi, ma il solo fatto di non avere la restrizione del cartellino da timbrare, di una sveglia da puntare, di orari prestabiliti che decidono della tua vita, è una condizione impagabile. Che lo dico a fare. Non ho cose eccezionali da sbrigare, record da battere, imprese stratosferiche, viaggi transoceanici… semplicemente ho da vivere. Mettere una dietro l’altra le ore della giornata come vengono, come sono più funzionali alla mia famiglia, o a me. Fare una passeggiata quando mi va, andare in piscina quando ne ho voglia, mangiare quando ho fame, uscire quando di solito starei a casa, eccetera.

E dunque la seconda considerazione di questo primo mese la chiamerei piccola ribellione alle regole imposte, in qualche modo, dai doveri relativi al lavoro.

Punto terzo. Dormire. Quanto ho dormito e sto dormendo! Neanche avessi da recuperare tutto il sonno del mondo. Ho sempre adorato poltrire la mattina sotto le coperte, alzarmi con comodo, senza fretta, tirare tardi la notte guardando alla tv un film, uno spettacolo, o leggendo un libro. Sono, da sempre, più gufo che allodola.

Ritorno alle mie abitudini, al mio modo di essere, al mio personale ciclo circadiano.

Ci sarebbero un milione di altre cose da ricordare, in questo bilancio. Ma ne voglio sottolineare, con emozione, ancora una soltanto. L’affetto che ho riscontrato al momento degli addii. Ho festeggiato con colleghe vecchie e nuove e con vecchi compagni di viaggio nell’avventura ospedaliera. Ho ricevuto tanti regali, tante parole sincere e non scontate. Quando c’è chi mi dice di essere stata contenta di aver fatto un pezzo di strada con me, o di avermi conosciuta, o di avermi sempre stimata, quando ritrovarsi vuole dire sentirsi a casa, io sento di aver seminato bene nel mio percorso. Di aver raggiunto il mio obiettivo di fare tutto al meglio.

Niente posso chiedere di più. Niente potrei dare di più. I tempi sono quelli giusti. Una parentesi importante si è chiusa definitivamente. Se ne apre un’altra, quanto lunga impossibile dirlo ora, pensare al futuro mi ha sempre un po’ terrorizzato, perciò ne faccio a meno e vivo il presente.

Al meglio che posso, come sempre.

RIPARTIAMO

1 dicembre 2022

Ripartiamo. Dopo quasi tre anni di pandemia, peraltro non ancora cessati, la vita è ripresa, quasi in modo normale. E per normalità si intende esattamente tutto quello che c’era anche prima, e anche peggio. Perché nonostante tutto non siamo cambiati in meglio. Anzi. Ci siamo inaspriti, incattiviti, isolati nel nostro egoismo. La paura ci ha fatti concentrare su noi stessi, e al diavolo gli altri. Tutti per uno, ognuno per sé. E quindi ci sono ancora le guerre, sì. Ce ne sono pure di nuove, non bastasse la precarietà dell’umanità di fronte al virus malefico. Da nove mesi l’Ucraina si difende dall’aggressione della Russia, tra bombe, morti, distruzione, dolore indicibile. L’Africa è sempre serbatoio di guerriglie e violenze ai danni dei più poveri. Ogni tanto qualche attentato in Medio Oriente, per non dimenticarci che anche lì si viaggia sul filo del rasoio. E tutto intorno la violenza nascosta del capitalismo occidentale, dove i diritti civili spesso sono rispettati solo in via teorica, dove le persone bisognose di fronte a una crisi economica incalzante sono sempre più numerose, e dove l’ingordigia di chi siede ai posti di comando acceca ogni ragionevolezza e ogni ipotesi di fratellanza.

E poi, niente di nuovo nemmeno qui, incurante dei problemi economici derivati dalla pandemia, ecco i “soliti” disastri ambientali, tragedie annunciate che nessuno si preoccupa di prevenire. Un mese fa la mia amata Senigallia, ora Ischia, per la seconda volta in sedici anni. Domani a chi toccherà? L’uomo ha colpevolmente trascurato di prendersi cura dell’ecosistema, singoli o istituzioni hanno incassato fondi destinati a interventi migliorativi e noi stiamo qui a parlare di morti da alluvioni, terremoti e quant’altro, ogni due per tre.

No, niente è cambiato, rispetto a tre anni fa.

La sanità pubblica è stata calpestata, deprivata di fondi e personale, e pure di motivazione, nonostante i morti tra medici e infermieri che si sono presi cura dei malati di covid a mani nude. Eroi. Poi dimenticati. L’ombra di profitti da intascare per i propri interessi in questo campo ci seppellirà presto tutti. Perché non basta la buona volontà e il sacrificio dei singoli che ancora ci credono, bisogna mettere mano nel profondo e riorganizzare tutto con coscienza. Altrimenti non avremo più alcun modo di curare noi stessi e i nostri discendenti.

Qualcosa è cambiato per me.

Io non sono più una infermiera. Non lavoro più in prima linea e nemmeno nelle retrovie della sanità. Sono andata in pensione, anticipata, in età ancora giovanile. Sto cercando di riprendere in mano la mia vita, farne una vita normale. Per questo provo a riaprire le pagine di questo blog. Non lo so se avrò continuità, se avrò qualcosa da raccontare e il tempo di farlo. Ma voglio provare a vedere se sono ancora in grado di elaborare un pensiero non troppo compresso dai limiti dei social. Non importa se non avrò lettori. In quest’epoca dove si vive per la visibilità ad ogni costo, il mio blog, che si chiama “In punta di piedi”, non ha mai sgomitato per mettersi in luce. È qui solo per me, da diciassette anni, esclusi gli anni della pandemia dove il cervello si era ibernato su problemi più contingenti, il tempo non esisteva e la vita era solo sopravvivenza.

Ora riprendo possesso delle mie facoltà mentali, del mio tempo, della mia voglia di ragionare e scrivere. O almeno ci provo. Senza aspettative o programmi.

L’importante, è ripartire.

COVID 19

8 aprile 2020

Ho bisogno di fissare alcuni pensieri per ricordare, un domani, che questo periodo è stato sì un incubo, ma reale. Non ce lo siamo inventato. Tutto questo è cronaca vera. Da non scordare.

In giro poche mascherine abitate da corpi timorosi. I divieti sono stringenti, non si può. Non si può uscire, non si può fare attività fisica, né in strada, né in palestra, né in piscina, né altrove. Non si può andare a teatro o al cinema. Non si può andare a messa. Non si può andare in pizzeria o al ristorante. Non si può fare shopping, solo beni di prima necessità, quelli alimentari, o farmaceutici.

Siamo in guerra.

 

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SOGNO, DILUVIO, DISASTRI, 4 NOVEMBRE. EMOZIONI A NON FINIRE.

4 novembre 2018

Oggi è una giornata fortemente emotiva per me.

È cominciata con il risveglio da un sogno dolcissimo, tanto reale da farmi male quando ho capito che vero non era e non lo sarebbe stato mai. Un terribile momento di consapevolezza: il tempo perduto si è portato via anche la possibilità di vivere nuovamente certe emozioni. Non si torna indietro e andando avanti non ci saranno più quei batticuori già vissuti. (more…)

NON LASCIARMI

5 ottobre 2017

Una volta scrivevo quelle che si potrebbero chiamare recensioni, ma che in realtà erano solo opinioni personali senza alcuna pretesa. Molte sono andate perse perchè facevano parte del mio vecchio blog ingurgitato dal rifacimento estetico senza scrupoli dell’allora gestore. Però i testi li ho conservati. E sono felice, oggi che è stato assegnato il Nobel della Letteratura a Kazuo Ishiguro di riproporne una che riguarda un suo bellissimo libro.

Il libro si intitola Non lasciarmi. La recensione l’ho scritta nel 2007, diversi anni dopo l’uscita del libro e prima dell’uscita del film omonimo. La ritengo ancora valida, come attuale penso che sia la trama raccontata. La ripropongo e mi complimento con lo scrittore per il premio, a mio parere meritato. (more…)

CARO 2017, IL MIO NOME E’ RESILIENZA

1 gennaio 2017

resilienzaBen arrivato 2017.
Il mio nome è resilienza.

Mi guardo indietro, lontano da te. Oppure mi guardo appena oltre le spalle. In ogni caso ho scoperto che il mio nome è resilienza. Perchè sono ancora qui e perchè inseguo ancora i sogni. (more…)

ACCADE ANCORA E TREMA LA TERRA

25 agosto 2016

Terremoto-Amatrice-18-990x641Accade ancora e ancora e ancora. Non c’è mai da stare veramente tranquilli. La morte è accanto a te, ti tocca e tu non te lo aspetti, non la vedi, non ci pensi.

La terra trema, di nuovo. Succede in ogni parte del mondo, succede nelle grandi città e nei piccoli centri di montagna. Oggi è accaduto tra Marche e Lazio, ieri in Emilia e a L’Aquila e Assisi e in Irpinia e in Friuli… e India, Giappone, Cina, Nepal. Ovunque.

Succede che non sempre c’è scampo. E qualcuno resta.

Resta sotto le macerie delle case e della presunzione che nulla ci può scalfire personalmente, che le disgrazie avvengono sempre altrove, agli altri. Una presunzione innocente, per chi ha solo scelto un luogo dove abitare, formare una famiglia e vivere la propria banale ma specialissima vita.

Una presunzione criminale, per chi quelle case le ha costruite, più o meno consapevolmente, prive di criteri antisismici, là dove ci si vanta di aver raggiunto i massimi livelli di civiltà. Perché dai, in India o in Nepal si parla di baracche, qui no, qui sono case ed edifici con funzione importante. Come gli ospedali.

Ospedali che crollano.

Malati già in bilico in una esistenza precaria costretti a fuggire dalle mura che dovevano prendersi cura di loro. Medici e infermieri che mandano all’aria le rispettive competenze per salvare, insieme, persone messe in pericolo da ben altro che la propria malattia. Rischiando la propria vita.

E miracolo se non ci sono stati morti.

Morti, morti, morti.

Ogni volta la conta infinita dei morti. Lo stillicidio.

La corsa contro il tempo. Scavare sotto le macerie, ascoltare la debole voce dei sepolti vivi provenire dalle viscere dell’inferno. Salvataggi dopo giorni di scavo, miracolati in extremis. Decine, speriamo non centinaia, di vite interrotte in un momento qualsiasi della loro esistenza colma di progetti e futuro. Vite che saranno riesumate e raccontate in diretta su tutti i media e i social per strappare altre lacrime, se non ce ne fossero state già abbastanza. Macinare e spettacolarizzare il dolore, bruciarlo e poi dimenticarlo. È così che accade e accadrà ancora.

I media oggi ti permettono di entrare nel vivo del dolore. Toccare con mano il sangue. E se hai la tv in HD, ecco che ti viene istintivo cercare di asciugare quelle lacrime sui visi impolverati, che sembrano così vere, messe in primo piano.

Sono vere, sono come le mie.

Questo entrare con un salto a piedi uniti nel dramma in primo piano scatena come non mai l’emozione e la solidarietà. Quelle povere creature che girano in un paese fantasma ricoperti da strati di polvere e una coperta incolore, sono come noi. Sono la testimonianza che potremmo esserci noi al loro posto. Che dormendo stanotte potremmo non rivedere più il nostro domani: tanto, basta un torcibudella dell’ipogeo, un mal di pancia degli strati profondi della crosta terrestre ed ecco che mentre dormi ti crolla il mondo attorno, ti crolla il letto al piano di sotto, o chissà dove, trascinato e sepolto da fiumi di macerie.

Quella persona che vaga simile a uno zombie potremmo essere noi che cerchiamo un figlio, un marito, una madre. Oppure potremmo essere noi quel figlio, quel marito, quella madre dispersi nel punto in cui un giorno c’era una casa. La loro casa.

È un momento e non ci sei più.

Un momento che può essere infinito.

La prima scossa è durata oltre due minuti. Due lunghissimi minuti in cui il mondo impazzisce e precipita e non sai fare altro che pregare che la smetta di tremare tutto. Oppure non fai in tempo nemmeno a capire e la tua luce è spenta per sempre.

Macerie, soccorritori dal tocco delicato e dall’udito finissimo allenato a cogliere un lamento sotto i cumuli di materiale sbriciolato. Cani gioiosi e fiduciosi che abbaiano felici nel silenzio, perché su, dai, fratello umano, lì sotto qualcuno ci sta aspettando.

Storie infinite, banali e speciali, qualcuna incredibile, scritta apposta per lo show. Storie da raccontare alla telecamera per condividere l’attesa e la speranza, a dispetto di ogni evidenza.

Polvere. Tanta polvere. Colore che manca, tutto è grigio di cemento sbriciolato.

È il non colore del terremoto. Lo trovi ovunque la terra impazzisca, è uguale, identico. Ma in HD lo vedi meglio.

È successo ancora e ancora succederà. Laggiù nel sottosuolo non vanno mai in vacanza. Lavorano in sordina, si fanno dimenticare e poi si scatenano arrabbiati e vendicativi. Forse hanno troppo peso sulle spalle e decidono di scrollarselo un po’ di dosso, come fanno i cani con la pioggia. E ogni tanto la scrollatina provoca il disastro. Ma laggiù non importa a nessuno. Le falde si scontrano, i Titani giocano fra loro, il terremoto è la conseguenza minima della collisione di forze immani.

Questa maledetta conta dei morti e di edifici crollati, fossero essi presuntuosi o umili, carichi di storia o appena nati; conta di lacrime e vane attese. E poi quel punto di domanda grande come le case che non ci sono più, sospeso nel vuoto lasciato libero dal palazzo crollato: e ora? Ora che non ho niente che faccio, dove vado? Ora che ho perso tutto cosa faccio di me?

Ricostruzione. Sì, lo Stato non vi abbandonerà. Rifaremo i paesi e le città più belle di prima. E intanto si fanno conti e sorrisi sotto banco: ci si guadagna sempre dal terremoto, su dai, allegria che ci sistemiamo! Più tempo ci mettiamo meglio è per noi e per il nostro conto alle Cayman.

Parole. Tante parole, dove starebbero meglio i fatti. E il silenzio.

È successo ancora e succederà di nuovo. Non c’è modo di evitarlo. Là nel sottosuolo se ne infischiano della superficie e delle lacrime che li innaffieranno, dopo.

Lacrime lacrime lacrime… non riesco a trattenerle. Sarà colpa dell’HD, che mi fa sembrare di essere lì. Sarà colpa delle cazzate del solito opinionista chiamato in fretta a chiudere i buchi della diretta. Sarà colpa del giornalista che si chiede come mai il soccorritore non gli spiega con un sorriso da Hollywood cosa sta succedendo, e quanti morti ha tirato fuori dall’incubo, e quanti vivi e poi… scusa un attimo giornalista, mi chiamano da sotto tonnellate di detriti, non senti? Magari torno dopo.

Sarà colpa di non so chi, ma di certo sono quelle storie, quelle macerie, quei paesi distrutti, quei destini incerti, quei dispersi nel nulla che mi fanno piangere. Lo so. Perché è tutto già visto, perché è successo ancora e so che ancora succederà.

E la prossima volta, chissà, ci toccherà davvero essere là, dall’altra parte dello schermo, in HD, sotto le macerie della nostra vita.

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LE MIE OLIMPIADI

12 agosto 2016

olympic flagIo non sono un’atleta. Non lo sono mai stata. Da piccola lo sport che mi riusciva meglio era girare le pagine di un libro. A scuola nell’ora di educazione fisica ero una frana, mi promuovevano solo per carità di Dio, perché eccellevo in quasi tutte le altre materie.

No, non sono un’atleta. Sono sprovvista del gene che fa di un comune mortale una persona idonea all’attività sportiva. Di sport ne ho provati tanti, ma fallendo in tutti ho dedotto di essere un caso disperato e mi sono dedicata ad altro. (more…)